035 – Rumore bianco: dal romanzo di Don De Lillo al film di Noah Baumbach

La trasposizione di un romanzo non facile, che indaga sulla complessità della vita quotidiana contemporanea, in un film a tratti piacevole, a tratti non del tutto in linea con una visione postmoderna, ma di quasi quarant’anni fa.

Che strana specie animale che è la razza umana. Domina il mondo, o ritiene di esserne in grado, e alimenta continui e sempre più contorti dubbi riguardo alla propria esistenza. Crea schemi, concettualizza rapporti, sentimenti e dinamiche sociali e poi si trova completamente disarmata di fronte all’inesorabile fine. E allora non può che provare paura.

Mi è piaciuto “Rumore bianco”, tratto dall’omonimo romanzo di Don De Lillo, anche se non è stata una visione semplice, come complessa mi è parsa la lettura, che avevo terminato poco prima di vedere il film. Complessa nel senso di densa, stratificata, piena di significati non banali.

Intanto è necessario notare che il libro è uscito nel 1985 e da allora molte cose sono cambiate nel sentire comune, per cui mi immagino che riportare una trama del genere sullo schermo non deve essere stato facile, ma l’impresa mi sembra riuscita. La trasposizione è fedele, qualche critico dice perfino troppo, come se il regista avesse avuto paura di sbagliare.

“Rumore bianco” è l’ottavo romanzo di De Lillo, un autore, per quanto lo conosco io (ho letto altri due suoi romanzi e ho visto “Cosmopolis”, film per la regia di Cronenberg, tratto da un altro suo libro), che guarda molto avanti. Si scomoda il termine postmoderno per descrivere le sue tematiche e per il suo approccio alla realtà. Il libro, che vinse il National Book Award per la Fiction, parla della società del XX secolo (immersa nel consumismo e mitragliata dai mass media), in cui le famiglie allargate e composite diventano nuclei nuovi, i rapporti diventano più liquidi. L’ossessione per la salute e la tranquillità (in qualsiasi modo la si intenda) si alleano con la ricerca di qualche affermazione personale (l’intellettualismo ostentato da molti colleghi del protagonista), nel tentativo di combattere l’oscuro nemico invincibile che aleggia per tutto l’arco delle vicende narrate: l’idea e la paura della morte. L’inesorabile “viaggio verso la non esistenza” come lo definirà uno dei personaggi. Tutte le pressioni che la società riversa sui singoli individui, privandoli di propri spazi privati, vanno a costituire quel “rumore bianco” che si fa sempre più fatica a percepire. Un rumore bianco che, pur essendo in parte anestetizzante, non sempre rilassa e, anzi, spesso è motivo di inquietudine.

Jack Gladney è un professore universitario specializzatosi in studi sulla figura di Adolf Hitler. Sposato con Babette, sono entrambi al quarto matrimonio e vivono con quattro figli, uno loro e gli altri avuti nelle unioni precedenti. Le complesse dinamiche familiari si alternano a momenti in cui vengono narrate vicende all’interno del campus, dove Jack, che ha una certa rispettabilità, dovrà tenere una conferenza con studiosi provenienti dalla Germania e quindi frequenta di nascosto un corso di tedesco. Il romanzo si apre con la scena dell’arrivo degli studenti accompagnati dai genitori su grandi auto station wagon, subito si mette in evidenza il ruolo quasi da luogo sacro del supermercato e l’invadenza dei media non tarda a manifestarsi. La fuga di una sostanza chimica tossica andrà a turbare la normale routine quotidiana, la famiglia sarà costretta ad allontanarsi per un po’ da casa (ma per Jack ci sarà uno strascico, tanto che si convincerà di essere ormai “progettato per morire”). Quando tutto torna apparentemente alla normalità, Jack, oltre a doversi preoccupare dei continui vuoti di memoria di Beba, come affettuosamente chiamano Babette, vuole scoprire a che cosa serve il misterioso medicinale che lei assume di nascosto, il famigerato Dylar, che non è stato prescritto dal suo medico curante e che nessun farmacista sembra conoscere.

Il film ricalca quasi del tutto il materiale del romanzo, con qualche leggera variazione, qualche omissione e alcune licenze poetiche. Non compaiono parenti o ex, come nel libro, la risoluzione finale è leggermente diversa, Babette nel libro non è presente nella scena del motel col misterioso Mr. Grey, ma forse la si è intesa in questo modo per renderla più digeribile, come a dire che “la vita continua, nonostante tutto”. L’uso grottesco dell’arma da fuoco è davvero spiazzante. Se non altro il discorso sulla fede delle suore tedesche nell’ambulatorio del pronto soccorso è rimasto tale e quale e mi pare un bel gioiellino.

All’inizio accennavo al fatto di quante cose siano cambiate dalla metà degli anni ottanta e che forse non era abbastanza raccontare, prelevare gli episodi narrati dal testo e cercare di trasporli sullo schermo. Oltre ai meri fatti c’è la questione della visione che De Lillo mette in campo, che era sensata e ficcante allora e che oggi, pur mantenendo la sua acutezza, a video potrebbe rischiare di sembrare un po’ spuntata. Che cosa è cambiato da allora? Beh, parlando di mass media, non c’erano i social, tutte le interazioni sono intese come fisiche o per lo più al telefono. Parecchie scene si svolgono all’interno del supermercato (anche una sorta di balletto finale), che assurge a ruolo di posto quasi di culto, dove le persone compiono il rito dell’acquisto consumistico, perno della società del benessere. Se anche esistevano vendite per corrispondenza, non c’era di certo la rete che esiste oggi, tra Amazon, delivery e compagnia bella. Anche per quello che riguarda la satira sull’universo famiglia, nel 1984 non c’erano ancora i “Simpson” (o sitcom similari, ma questo mi sembra l’esempio più forte), fenomeno di massa che ha ridisegnato molti archetipi del nostro immaginario in materia, ma questa è una mia osservazione personale. Non voglio dire che il messaggio sia meno significativo o azzeccato, ma forse agli occhi dello spettatore del 2023 non è così dirompente come poteva esserlo nel 1984.

In questo aspetto, secondo me, sta la maggiore difficoltà della resa del film, oltre ad un uso dell’ironia e del sarcasmo che a volte risultano poco recepibili, pur essendone la pellicola totalmente permeata. Tutto sommato però, a mio parere, è un film da vedere, indipendentemente dall’aver letto il libro o meno, anche se il romanzo riesce meglio a narrare il senso del tempo in cui è immerso.

Chiarisco: non è la solita banalità per cui, per partito preso, un libro sia per forza meglio del film. Semplicemente il film è sì piacevole, ma un po’ in ritardo su quanto viene raccontato, al di là degli eventi, per una questione di “visione”, come già sottolineavo.

Presentato a Venezia nel 2022, ha nel suo cast Adam Driver (Star Wars, BlackkKlansman) nella parte di Jack, Greta Gerwing come Beba e Don Cheadle nel ruolo del professor Siskind, appassionato di Elvis.

Prodotto tra gli altri da Netflix, è presente sulla piattaforma dal 30 dicembre scorso.

032 – NOI di Evgenij Zamjatin, il romanzo precursore di tutte le distopie del Novecento.

Antesignano di 1984 di Orwell e del Mondo nuovo di Huxley, Noi racconta di un’umanità ipermeccanizzata e socialmente ipercontrollata.

Un romanzo dalla storia travagliata, come quella del suo autore, il russo Evgenij Zamjatin, costretto a espatriare per stabilirsi in Francia. Concepito nei primi anni 20 del secolo scorso, il romanzo venne subito censurato, uscì in inglese nel 1924 e in russo solo nel 1952, ma a New York e si dovette attendere il 1988, perché potesse essere edito anche in URSS. Noi è ambientato nel terzo millennio e narra di una società i cui abitanti vivono controllati da un regime totalitario che regolamenta ogni parte della loro vita. Tutto è predefinito e automatizzato, nulla può venire nascosto, persino i palazzi sono fatti completamente di vetro (soltanto durante i rapporti sessuali è possibile abbassare le tende).

La storia si dipana attraverso le pagine di un diario, gli Appunti del protagonista, D-503 (ogni persona conserva un’identità alfanumerica, i nomi sono sparirti), un ingegnere che sta lavorando all’ambizioso progetto di costruzione di una nave spaziale, il famigerato Integrale.

A capo di questo Stato Unico abbiamo un autocrate che si fa chiamare “Benefattore” (a cui il Grande Fratello orwelliano deve più di un tratto caratteristico) aiutato nel costante lavoro di controllo dai “Custodi”, veri e propri tutori dell’ordine. Il razionalissimo D-503, che intrattiene una relazione “regolare” con la tranquilla O-90, si innamora di un’altra donna dal fascino enigmatico, I-330. Lei riuscirà a turbarlo e soggiogarlo fino al punto non solo di fargli provare gelosia e possessività, sentimenti “anticollettivi” e quindi del tutto fuori legge, ma addirittura lo convincerà a unirsi a un movimento rivoluzionario finalizzato a ribaltare il regime.

Al di fuori dello Stato Unico, descritto come un’immensa metropoli, oltre la Muraglia Verde, vivono persone molto diverse dai cittadini regolari, i cosiddetti “Mefi”. I-330 condurrà D-503 tra di loro con lo scopo di impossessarsi dell’Integrale per usarlo contro lo Stato Unico. Il piano viene scoperto, ma la rivolta è ormai partita. Non svelo il finale.

Mentre Noi stenta a raggiungere un dignitoso sbocco editoriale, nonostante la critica ne parli bene, ma ben altre paure ne impediscano la diffusione, almeno in patria, Aldous Huxley da alle stampe nel 1932 Il mondo nuovo e George Orwell nel 1949 pubblica il celeberrimo 1984. Sono romanzi dalle tematiche molto accostabili a Noi, entrambi gli scrittori conoscono Zamjatin, ma se Huxley dice di non aver mai letto Noi (nonostante appunto similarità dei temi affrontati), Orwell ammette di averlo recuperato nella versione francese del 1929, ne auspica una ripubblicazione in lingua inglese (non mancando di citarlo riguardo alla composizione del suo romanzo più noto), ma lo bolla ingenerosamente come “non un romanzo di prim’ordine”. L’impietoso giudizio poteva anche dipendere dal fatto che la traduzione che girava in quegli anni non fosse accuratissima, ma, al di là di questo, leggendo Noi non si possono non ravvisare consonanze con 1984, anzi sarebbe meglio dire il contrario, dato Zamjatin scrisse la sua opera trent’anni prima di Orwell.

Descrivendo un ordinamento sociale che intende sopprimere ogni forma di individualità a vantaggio di una massa uniformemente plasmata ed eterodiretta e raccontando, anticipando i tempi, il destino niente affatto roseo di una tale visione, il romanzo venne interpretato come un palese manifesto anticomunista. Dopo il 1952, con l’edizione russa edita a New York, le cose cambiarono poco, Noi raggiunse un pubblico abbastanza ristretto, anche se quell’edizione diede il via a una serie di nuove traduzioni (la prima italiana è del 1955).

In realtà il respiro di questo romanzo, nato sì in un contesto sociale e politico preciso, era ben più ampio. Non si tratta di un semplice pamphlet politico, come ebbe a spiegare in più riprese l’autore stesso, Noi rappresentava (e rappresenta) una “protesta contro il vicolo cieco in cui si sta andando a cacciare la civiltà europeo-americana, che livella, meccanicizza, macchinifica l’uomo.” Alcuni critici americani hanno tratto dalla lettura del romanzo un duro attacco al fordismo.

Oggi viviamo in un’epoca in cui ci si sente del tutto liberi, ma mentre nel mondo esistono luoghi dove dittature e guerre sono tutt’altro che brutti ricordi (ho detto Russia? L’ho fortemente pensato, sarò telepatico?), Noi torna di forte attualità se lo si legge in un’ottica in cui le convenzioni, le distanze, il bisogno di apparire in un certo modo sui social e tutto quanto, in modo nascosto e strisciante, lede la nostra libertà di agire e pensare fuori dagli schemi (e fuori dagli schermi), sono i nostri nuovi tiranni, che spesso e volentieri siamo noi stessi a imporre sulle nostre vite.

Nel 1932 Zamjatin pensò a una trasposizione cinematografica di Noi, ne scrisse la sinossi di sceneggiatura, ma il progetto non vide mai la luce. Anche in questo l’opera di Orwell ha avuto maggior fortuna, almeno fino ad ora. Il regista Hamlet Dulyan sta realizzando un lungometraggio tratto dal romanzo. L’uscita era prevista per il 2021, ora si parla di fine 2022, ma la situazione internazionale potrebbe far slittare l’uscita ulteriormente.

Qui sotto il trailer:

Una nota di colore pop per concludere. Il brano del 2006 Integral dei Pet Shop Boys, che, non a caso, rappresenta una forma di protesta alla proposta di adottare, nel Regno Unito, le “ID card” (un documento in cui vengono riportati tutti i dati di un soggetto), è un evidente omaggio al romanzo di Zamjatin.

“Carnaio” e “Nuovissimo Testamento”: l’Italia narrata in modo inusuale e spiazzante

Giulio Cavalli è una figura poliedrica e originale nel panorama artistico e letterario italiano: autore, regista e attore teatrale, giornalista e scrittore. Nei suoi lavori a teatro ha sempre toccato temi molto delicati e scomodi, dal turismo sessuale minorile fino ai “riti e conviti” mafiosi (ne sono seguite minacce mafiose di morte e una vita sotto scorta). Come giornalista collabora con Fanpage.it, con il giornale online TPI e Left, per cui cura la rubrica “Il Buongiorno di Giulio Cavalli” visibile ogni giorno anche su Facebook in forma audio, video e scritta.

Negli ultimi suoi due romanzi, “Carnaio” (2018) e “Nuovissimo testamento” (2021), difficilmente classificabili in un genere letterario, (si possono definire distopici, iperbolici o altamente metaforici), ha tratteggiato un affresco spietato della nostra società al limite del fiabesco, due fiabe irrimediabilmente oscure, ma quanto mai realistiche. In mezzo c’è stata “Disperanza” (2020), una raccolta di fragilità, messaggi ricevuti dall’autore che costituiscono una riflessione sulla nostra società, che mira a riscoprire ottimismo e positività, come una vera e propria cassetta degli attrezzi per continuare a sperare.

Finalista al Premio Campiello 2019, Carnaio è un romanzo che per certi versi ricorda il Saramago di Cecità, non solo per l’evento insolito che irrompe nella realtà, ma anche per lo stile narrativo magmatico di mescolanza tra prosa e dialoghi tipico dello scrittore portoghese. Una metafora che diventa iperbole, grottesco, assurdo, ma allo stesso tempo resta strettamente legata alla realtà contingente. La trama, in breve. DF, una cittadina italiana su una costa non ben definita, viene inondata di cadaveri che arrivano non si sa da dove, forse da un Paese dall’altra parte del mare. All’inizio i ritrovamenti sono singoli, poi man mano le maree di morti che si riversano sul paesello diventano sempre più grandi. La comunità applicherà soluzioni incredibili, orribili ed estreme non solo per sopravvivere, ma per usare questa “calamità” a proprio vantaggio. Un libro importante, da leggere per cercare di leggere l’oggi.

Anche nel successivo Nuovissimo Testamento Cavalli indaga la società odierna, con i suoi vizi, la sua apatia, le sue battaglie perse, attraverso una serie di metafore che colgono nel segno. In uno Stato dove la vita di ogni cittadino è quasi del tutto regolamentata da ordinamenti implacabili (ad esempio la vita di coppia deve seguire dei protocolli ben precisi) e dove i sentimenti sono in qualche modo, non rivelo come, tenuti a bada, un manipolo di rivoluzionari male in arnese lotta per la liberazione delle coscienze. Ma c’è un risvolto imprevisto, che accenno soltanto, senza fare spoiler sulla trama: se tutti si è assuefatti a un regime o a una dittatura morbida le scelte sono comuni, praticamente eterodirette, ma se si lascia a ognuno la libertà di azione e di auto determinazione, si deve anche accettare l’ipotesi che la maggioranza non la pensi come noi. La libertà comporta la diversità di opinioni e di vedute. Un romanzo che non può lasciare indifferenti, anche perché, se alziamo un po’ le antenne…ci siamo dentro ogni giorno.

Lo scorso autunno ho avuto modo di conoscere Giulio Cavalli ed è stata un’esperienza particolare, che ho raccontato qui:

Caino di José Saramago

Contrariamente a quello che si suole dire, il futuro è già scritto, quello che noi non sappiamo è leggere la sua pagina, disse Caino mentre si domandava fra sé e sé dove mai fosse andato a prendere quell’idea rivoluzionaria.

Ultimo romanzo di uno dei più importanti romanzieri contemporanei (Nobel per la letteratura nel 1998), “Caino” di José Saramago, traccia un’ipotetica storia con protagonista il personaggio biblico negativo per antonomasia, ribaltandone il punto di vista, trasformandola nell’odissea picaresca di un anti eroe girovago che trova nel dio dell’antico testamento il suo avversario più acerrimo, contro il quale si diverte a scombinare progetti, a mettere in luce le contraddizioni in una continua sfida, frontale e a distanza.

Come già ne “Il Vangelo secondo Gesù Cristo” Saramago mescola allegoria e logica stringente, mettendo alle corde e facendo scricchiolare il racconto biblico tradizionale. Una voce assolutamente libera e vivida, una prosa che è un fiume in piena, sagace e impeccabile.

Il Potere del Cane di Jane Campion

Jane Campion, regista e sceneggiatrice neozelandese che ci ha spesso regalato opere che hanno saputo indagare in modo profondo le diverse sfaccettature dell’animo umano (una su tutte Lezioni di piano, ma mi piace ricordare anche In The Cut, che ai suoi tempi generò non poco scandalo), adatta per lo schermo il romanzo di Thomas Savage del 1967 (che non conosco, ma che prima o poi leggerò) e ne trae un film che ha già vinto il Leone d’Argento al Festival di Venezia 2021, tre Golden Globes e si presenta agli Oscar del prossimo marzo con ben 12 candidature (tra cui miglior film, miglior regia, miglior attore protagonista e miglior sceneggiatura non originale).

Vedendo di sfuggita le prime immagini del trailer si potrebbe pensare a un western intimista, ma si tratta di tutt’altra cosa. L’ambiente è esso stesso forte e presente quasi come un personaggio della storia, la vicenda si svolge in Montana, nel 1925. Si scorgono già alcune automobili e, tanto per dare un contesto storico, è il periodo di Al Capone a Chicago, pochi anni prima della crisi del 29. Oltre a questo, se anche ci sono uomini a cavallo che spostano mandrie di bovini, il mito della frontiera, degli spazi sconfinati e delle lunghe cavalcate verso l’orizzonte non lo si percepisce proprio, si è asciugato, è già il passato. Alla Campion interessa raccontare altro. Quello che si sente è il peso della solitudine, l’isolamento rispetto a un mondo che sta velocemente cambiando.

Phil e George Burbanks sono gli eredi del ranch di famiglia e portano avanti il lavoro necessario per mantenerlo florido. I fratelli sono quanto di più diverso si possa immaginare, sia fisicamente che caratterialmente. Phil è arrogante, scontroso, pronto a sbeffeggiare chiunque (oggi lo definiremmo anche omofobo) e vive ricordando l’uomo che lo formò, Bronco Henry, quasi fosse un personaggio mitico. George invece è un uomo mite e sensibile e sogna di mettere su famiglia. Troverà la sua compagna in Rose, giovane locandiera vedova e con un figlio, Peter, che sogna di poter studiare al college e si dimostra non molto adatto alla vita da bovaro. George e Rose si sposano e la donna si trasferisce a casa Burbanks, il che fa tutt’altro che piacere a Phil.

Questo il preambolo, l’inizio della trama, perché poi la storia viene sorretta dai personaggi, dalle loro convinzioni e dalle loro contraddizioni, nonché dalle loro debolezze. E ognuno ne ha una, evidente o celata che sia. Il titolo non è casuale e fa riferimento, oltre che a una conformazione rocciosa visibile di fronte alla tenuta dei Burbanks, anche e soprattutto a uno dei passaggi biblici dei salmi, i “salmi di lamento individuale”, in cui si fa appello a Dio per venire liberati da un dolore che sembra insormontabile. E, allo sciogliersi della vicenda, resta l’impressione che qualcuno agognasse a essere liberato da sé stesso.

Il cast è notevole: Benedicth Cumberbatch (Phil), Kirsten Dunst (Rose), Jesse Plemons (George), Kodi Smit-McPhee (Peter) e Keith Carradine, nella parte del governatore Edward.

Disponibile su Netflix da dicembre scorso.

I fantasmagorici universi di Gianfranco Manfredi

-Manfredi chi, l’attore?

-Sì, è stato anche attore, sceneggiatore cinematografico e televisivo (mi ricordo Valentina, tratto dai fumetti di Crepax, con una prorompente Demetra Hampton e Colletti Bianchi con Giorgio Faletti).

-Ah, il grande Nino!

-No, non esattamente lui. Principalmente scrive.

-Ok, ho capito, allora deve essere l’immenso Valerio Massimo, l’autore di Aléxandros!!!

-Ehm, no, nemmeno.

-E, allora chi è?

Si chiama Gianfranco Manfredi ed è uno degli autori più prolifici che io conosca, se non per il numero di libri, per il raggio d’azione tra i vari media e i generi più disparati che ha esplorato.

Classe 1948, nato a Senigallia, ma milanese d’adozione, si stabilisce a Milano dove studia, si laurea in Storia della Filosofia e comincia la sua carriera di cantautore (alcuni suoi dischi si trovano anche su Tim Music, io ad esempio ho ascoltato Zombie di tutto il mondo unitevi del 1977, ovviamente parla di tematiche care ai cantori rivoluzionari dell’epoca, però l’ho trovato gradevole e decisamente non banale). Ha collaborato con Ricky Gianco, Mia Martini, PFM, Gianna Nannini, Drupi, Gino Paoli, Mina e Giorgio Faletti, per fare i nomi più noti.

Dai primi anni 90 si dedica alle sceneggiature di fumetti. Con l’Editoriale Dardo crea Gordon Link, fumetto horror simil bonelli con un protagonista che ha il volto dell’attore Kyle MacLachlan, a quei tempi famoso per il ruolo dell’agente Cooper di Twin Peaks. Si tratta ovviamente di uno degli epigoni di Dylan Dog, uno tra i meglio riusciti a dire il vero, dato lo spessore della scrittura di Manfredi, basata su una solida documentazione che traspare da ogni sua opera. L’avventura dura circa due anni e, dopo la chiusura della testata, Manfredi comincia a collaborare con la Bonelli Editore. Scrive storie per Tex, Mister No, Nick Raider e per lo stesso Dylan Dog. Successivamente crea nuove testate tutte sue, sempre targate Bonelli, come Magico Vento, Volto Nascosto e Shangai Devil. I suoi fumetti fanno il giro del mondo, sono tradotti anche in India e USA.

Manfredi però è anche un romanziere con i controfiocchi e affronta con originalità diversi generi che vanno dall’horror al noir, dal romanzo a sfondo storico a quello di fantascienza. Di seguito qualche esempio (quelli che ho letto).

Magia Rossa (1983). Romanzo gotico ambientato nella Milano degli anni 70 che si intreccia con la storia milanese rivoluzionaria e scapigliata del passato, da dove un oscuro mago, che millanta di avere strani poteri occulti, sembra essere ritornato in vita nel tempo presente. Sarà una concreta minaccia per la vita di un consulente di archeologia industriale che lavora al Museo della Scienza, di un suo amico che ha scritto un articolo indagine sul mago stesso, e della donna che è stata fidanzata dei due.

Ultimi Vampiri (1987). Libro di racconti a tema vampiresco, scritto in stile molto classico, ricorda un po’ i racconti di Poe. Questo libro, ripubblicato come quasi tutti i vecchi romanzi di Manfredi, in origine era uno di quei piccoli tascabili Feltrinelli, trovato su una bancarella di libri usati fuori dall’università in un tempo lontanissimo, prima che Ibs e Amazon (non me ne vogliano, sono utilissimi) cancellassero la poesia della ricerca di un libro fisico nei vari mercatini e librerie sgarrupate.

Trainspotter (1989) (Sì, prima di Trainspotting!) Romanzo noir atipico e avvincente. Ricordo molto poco della trama, dovrei rileggerlo, però ricordo l’ambientazione (una città di respiro europeo chiamata Hinterland), un profondo senso claustrofobico e un particolare del finale (che non è esattamente uno spoiler): il protagonista fa di tutto perché una serie di eventi appaia in un certo modo, ma la gente capisce tutta un’altra cosa, imprevedibilmente. Mai letto un finale così! Girava voce che dovessero farne un film, ma poi non ne ho più sentito parlare.

Il peggio deve venire (1992). Un romanzo dark e action che sembra a tratti un violentissimo videogame, ma nel percorso di morte che si trova ad affrontare il protagonista i pericoli sono concreti e reali.

La fuga del cavallo morto (1993) Una sorta versione grottesca del Fu Mattia Pascal, un po’ disperata, un po’ da ridere. Il protagonista è un comico televisivo, uno stand up comedian (quando ancora in Italia non li chiamavano così) appassionato di battute vintage, giochi di parole arzigogolati, come lo diventa la sua stessa vita.

Una fortuna d’annata (2000). Altro giallo atipico che ruota attorno alla vincita milionaria della lotteria di capodanno. Il biglietto vincente è stato venduto in un paesino di montagna, un giornalista vuole scoprire chi è il fortunato vincitore, ma c’è qualcuno pronto a uccidere per accaparrarsi il tagliando del premio.

Il piccolo diavolo nero (2001) Milano 1893, arriva la bicicletta. Un gruppo di giovani amanti del nuovo mezzo ha come idolo il mitico corridore milanese Romolo Buni, soprannominato dai francesi il “piccolo diavolo nero”, che ha raccolto la sfida di Buffalo Bill per un’epica gara di tre giorni, bicicletta contro cavallo. Ma si tratta del vero Buffalo Bill o di un impostore? Un giornalista cercherà di scoprire la verità.

Ultimamente ho preso due altri suoi romanzi che devo ancora leggere, Splendore a Shangai del 2017, storia di un pianista che tra gli anni 20 e 30 viene ingaggiato per un concerto nell’estremo oriente e RAM, le immagini permanenti del 2021, che ho appena iniziato, storia di una invasione marziana narrata tra il filosofico e il weird (un incrocio tra Fritz Leiber e Ray Bradbury, si legge in quarta di copertina). I marziani arrivano sulla terra per invaderla, ma della razza umana non c’è più traccia e spetterà a Ram, delegato dal Gran Consiglio marziano, scoprire che fine ha fatto, analizzando la storia umana tramite le immagini che si è lasciata alle spalle.

Rubo, cioè condivido, questo video dal canale Youtube della Bonelli che mostra Manfredi nel suo studio.

M.A.S.H., la sgangherata epopea che dileggia la guerra

Scritto nel 1968 da Richard Hooker, chirurgo americano che prestò servizio come ufficiale medico durante la guerra di Corea, con la collaborazione del giornalista W. C. Heinz, M.A.S.H. divenne un caso letterario, un best seller seminale sia per opere letterarie (Hooker partecipò alla scrittura soltanto dei primi due romanzi – sequel), sia cinematografiche e televisive.

Partendo da esperienze personali e da storie viste o sentite da altri commilitoni, Hooker racconta varie vicissitudini che si svolgono nel 4077° Mash, Medical Army Surgical Hospital, uno degli ospedali da campo dislocati dietro le prime linee durante la guerra in Corea. Il tono è irriverente e scanzonato, per quanto possibile, e antimilitarista (non si parla mai dell’andamento o delle ragioni del conflitto). Alle “gambe delle donne”, così viene chiamato il complesso delle tende, si ritrovano tre medici tanto bravi nel loro mestiere, quanto irriverenti verso i superiori. “I mostri della palude”, così si fanno chiamare, la fanno sempre franca, solo in virtù della propria abilità medica di “bassa macelleria”, che consiste nel rattoppare, aggiustare e sostanzialmente salvare vite, spesso al fine di trasportare i feriti in ospedali più attrezzati.

“Occhio di Falco” Pierce, il “Duca” Forrest e John “Trappolone” McIntyre sono sempre pronti non solo a bere e a fare i matti, ma si imbarcano in imprese folli e imprevedibili, come quando si vogliono liberare di un compagno di tenda ultra religioso, quando possono aiutare un amico (Cassiodoro, il carezzevole cavadenti, dentista del campo) che non ha più voglia di vivere inscenando un rito di suicidio che avrà un esito inatteso, quando hanno l’occasione di farsi una bella partita a golf prendendo per i fondelli un po’ di superiori o quando c’è un bambino da salvare e riescono a farlo adottare da qualcuno che se ne prenderà cura. Per non parlare dei sotterfugi per vincere un’impossibile partita di football contro degli avversari troppo forti. Attorno a loro una girandola di personaggi davvero memorabili. Scritto in modo abbastanza tradizionale, in uno stile asciutto quasi giornalistico senza fronzoli e lungaggini (ci sono alcuni passaggi in cui si parla di operazioni chirurgiche in modo un po’ tecnico, ma comprensibile, senza appesantire le vicende) è un libro divertente, che comunque offre spunti di riflessione, perché l’insensatezza della guerra e lo spettro della morte fanno spesso capolino.

Nel 1970 Robert Altman ne trasse un film che vinse il premio Oscar per la migliore sceneggiatura non originale e la Palma d’Oro al Festival di Cannes. Nel cast Donald Sutherland (Occhio di Falco), Elliot Gould (Trappolone, “razzo” nella traduzione italiana), Tom Skerrit (il Duca, a proposito di Skerrit, prima o poi gli dedicherò un post come caso umano, ossia, una stella mancata: ha partecipato a molti film importanti sempre in ruoli minori e pochi si ricordano di lui… che, ad esempio è il capitano Dallas della Nostromo nel primo Alien, ma chi se la ricorda la sua faccia? Io sì, ma non divaghiamo) e Robert Duvall nella parte del maggiore Burns, l’ultra religioso di cui sopra. Il produttore chiese fino all’ultimo ad Altman di smorzare un po’ i toni di una sceneggiatura un po’ sboccata (e a tratti sessista, ma l’ambiente militare quello era), con scene abbastanza cruente in sala operatoria e altre dissacranti, tipo la parodia dell’ultima cena prima del “suicidio” di Cassiodoro, ma il regista non cedette di un passo e la pellicola riscosse anche un grande successo commerciale. Era in corso la guerra in Vietnam in quegli anni, il film è ambientato in Corea, ma i riferimenti alla situazione dell’epoca si possono facilmente cogliere. Una satira che in qualche modo sbeffeggia l’amministrazione Nixon, pochi anni prima del caso Watergate. Dopo questo film e dato il suo successo, Altman poté dedicarsi esclusivamente a progetti a lui graditi. Attualmente il film è nel catalogo di NOW Tv (fino a marzo, mi pare).

Poi venne la serie tv. Andò in onda dal 1972 al 1983, undici stagioni, 256 episodi. Da questa serie emerse Alan Alda, nel ruolo di Occhio di Falco, che diventò prevalente rispetto al coprotagonista Wayne Rogers, che interpretava Trappolone. Infatti poi, per dissapori di vario tipo, Rogers mollò la serie e vennero introdotti altri personaggi a contorno. Dati i temi trattati fu una di quelle serie televisive invise all’amministrazione Reagan (un’altra fu quella dedicata al giornalista Lou Grant, interpretato da Ed Asner), che in qualche modo pare riuscì a farla chiudere. Sia nel film che nella serie tv il personaggio di Walter Eugene “Radar” O’Reilly, l’esperto delle telecomunicazioni, è interpretato dallo stesso attore, l’occhialuto Gary Burghoff.

Ci furono anche altri spin-off, alcuni col tono smaccatamente da sit com. Il più riuscito e che ebbe maggior successo fu il telefilm Trapper John MD, serie che riprendeva il personaggio di Trappolone McIntyre e ne narrava la vita dopo l’esperienza in Corea. Trapper, interpretato da Pernell Roberts, torna a San Francisco ed esercita come capo chirurgo al Memorial Hospital. Al suo fianco, Alonzo “Gonzo” Gates, interpretato da Gregory Harrison, chirurgo un po’ hippy (vive in un camper parcheggiato fuori dall’ospedale), il quale è stato medico durante il conflitto in Vietnam. Le dinamiche tra i due chirurghi veterani di due guerre diverse, ma molto simili fanno spesso da motore alla vicenda. Non manca ovviamente il direttore dell’ospedale da dileggiare alla bisogna. Ricordo questa serie perché andava in onda nei primi anni 80 su Rai due in quella fascia preserale, che non si chiamava ancora così, era solo “prima del telegiornale delle 20”. La musica della sigla potrebbe accendere qualche ricordo, io la vedevo da piccolo, ma l’aggancio con M.A.S.H. l’ho fatto molto dopo.

I cavalieri tutt’altro che cavallereschi e le eroiche dame di “The Last Duel” di Ridley Scott

Che il britannico Ridley Scott sia uno dei più grandi registi viventi è un’affermazione abbastanza ovvia. Basta spulciare nella sua lunga filmografia cominciata ufficialmente nel 1977 con I duellanti, tirando fuori qualche titolo a caso, per rendersi conto che più di uno di quei film ha contribuito in modo impattante sulla storia del cinema, in generi anche molto differenti. Alien, Blade Runner, Thelma & Luoise, Il Gladiatore, tanto per citare le pellicole più note, hanno regalato al nostro immaginario collettivo scene e personaggi iconici pressoché immortali.

The Last Duel, film precedente al più fortunato (economicamente parlando) House of Gucci, ha avuto una sorte distributiva abbastanza infelice, l’uscita nelle sale è stata prima rimandata di un anno, poi è stata seriamente penalizzata dalla pandemia, cosa che ne ha limitato fortemente gli incassi. Dallo scorso dicembre, è visualizzabile su Disney +, tramite la sezione Star (bisogna accertarsi che il proprio account sia 18+ altrimenti il topastro maledetto i contenuti da adulti non te li mostra!) e merita proprio di essere visto. Io spero che riceva delle nomination e magari qualche statuetta agli Oscar, anche se ne dubito. Purtroppo non sembra tra i titoli favoriti, forse anche perché il regista concorre già con un altro film (House of Gucci, appunto).

Premesso che non posseggo le conoscenze necessarie per dire se ci siano svarioni storici eclatanti (armature, armi, rituali, vestiti etc.), mi limito a giudicarlo dal punto di vista della trama, dei personaggi e della messa in scena. Tratto dal romanzo storico del 2004 “L’ultimo duello. La storia vera di un crimine, uno scandalo e una prova per combattimento nella Francia medievale” di Eric Jager, racconta gli avvenimenti che riguardarono quello che venne definito l’ultimo duello di Dio (ossia uno scontro da tra due contendenti che non si appella né al giudizio di un tribunale, né a quello di un signore, ma si risolve con un duello all’ultimo sangue; il vincitore avrebbe quindi ragione, secondo il giudizio divino), duello che ebbe luogo in Francia nel 1386, tra Jean de Carrouges e Jacques Le Gris.

La storia antecedente al duello è narrata in flashback in tre capitoli differenti in cui la si vede dal punto di vista del personaggio principale in campo: Jean de Carrouges (Matt Damon) nel primo, Jacques Le Gris (Adam Driver) nel secondo e nel terzo ci sarà la versione della moglie di de Carrouge, Marguerite (Jodie Comer), la donna che ha subito l’oltraggio da parte di Le Gris. E questo capitolo viene marcato con il titolo “La verità”, tanto per farci capire che solo quando vedremo la storia da questa angolazione si potrà capire come sono andate veramente le cose.

Vorrei dire il meno possibile, per non sabotare chi non lo avesse ancora visto. L’artificio di raccontare le vicende da differenti punti di vista non è nuovo nella narrativa e tanto meno nel cinema, un esempio illustre è Rashomon di Akira Kurosawa, ma Scott in questo caso lo applica in modo a dir poco chirurgico. Cambiano piccoli dettagli, ma sono dettagli che modificano profondamente il senso della storia. Kurosawa, nel suo film del 1950, che vorrei analizzare a fondo un’altra volta, raccontando una vicenda simile (ci sono marito e moglie, c’è la violenza di un terzo incomodo, che poi uccide il marito, ma non in un “leale” duello), ci lascia intendere che una verità assoluta non è possibile, le tre versioni sono troppo discordanti e ogni personaggio potrebbe avere in parte mentito. Scott lavora invece su un altro piano, una verità c’è, ma la si evince solo a una attenta lettura (visione, in questo caso) degli eventi. Non ci sono ripetizioni ridondanti, si vede solo quello che il protagonista in questione può sapere perché lo ha vissuto in prima persona. E quindi le scene che sembrano uguali nei tre capitoli, in realtà non lo sono per niente.

Il nobile combattente de Carrouge diverrà un rozzo e risibile personaggio che, persa la moglie e l’onore dell’eredità, cercherà nuovi terreni e una nuova donna per assicurarsi la prole. Nei confronti di sua moglie avrà il rispetto che potrebbe avere per un pezzo di terra o per un cavallo, è come se fosse un possedimento che va difeso, se oltraggiato. E una eventuale sconfitta nel duello di Dio comporterebbe la morte stessa della donna, che sarebbe automaticamente considerata colpevole di tradimento e quindi bruciata viva. D’altro canto lo scudiero Le Gris, più giovane e aitante, che vive alla grande sotto le grazie del conte Pietro II d’Alençon, un biondissimo Ben Affleck efficace nell’interpretazione di un signotto avido e indolente, non è nemmeno in grado di capire quale sia il limite oltre il quale un approccio “amoroso” diventi stupro; paradossalmente, nella sua mente, è davvero convinto di essere innocente e crede sul serio che la povera Marguerite fingesse di rifiutarlo, solo per gioco, come succedeva con le cortigiane disponibili al castello del conte. Poi c’è la donna, ridotta a bene materiale, che denuncia la violenza subita e viene sottoposta a un processo ecclesiastico che fa letteralmente accapponare la pelle e non le resta che sperare, per la sua stessa vita, che il marito non soccomba nel duello, anche se, dal suo punto di vista, la vita coniugale non è proprio un paradiso.

E infine il duello, cruento, sporco e realistico. Non svelo il finale, dico solo che è dai tempi del duello tra la Montagna e Oberyn Martell nella quarta stagione de Il Trono di Spade che non mi capitava di vedere  uno scontro così coinvolgente e così ben girato.  Cercate di vederlo ora che si trova su una piattaforma, perché secondo me, in tv, corre il rischio di venire mutilato, sia per la crudezza di alcune scene, sia per la lunghezza complessiva non indifferente. Si tratta di un film che va assolutamente visto nella sua versione più completa.

Tarantino romanziere

Premessa. Tarantino non si discute, o si ama o si odia, c’è poco da dire. Personalmente l’ho subito amato alla follia da quando ho visto “Pulp Fiction”, in una piccola sala di Milano. All’epoca ero poco più che ventenne e mi trovavo in un periodo della mia vita denso di studi, speranze e sogni, università, scuola del fumetto, aspirazioni letterarie. Oggi attendo con discreta ansia da fan l’uscita del suo prossimo film, di che parlerà? Sarà davvero l’ultima sua opera cinematografica?

Intanto quest’estate, sotto l’ombrellone, ho avuto modo di leggere la versione romanzo di “C’era una volta a Hollywood” e ne sono stato piacevolmente stupito. Non si tratta della semplice trasposizione su carta del film e nemmeno del rimaneggiamento della sceneggiatura, tanto è vero che alcune situazioni sono presentate in modo differente (smorzo un eventuale entusiasmo, il finale è molto diverso, anche se la storia del lanciafiamme è comunque citata). Tarantino crea un universo in cui mescola personaggi, serie televisive, film e situazioni vere con altrettanto materiale inventato di sana pianta, il tutto amalgamato in maniera davvero coinvolgente. Non sono qui a scoprire l’acqua calda se dico che Tarantino è un vero affabulatore, ma non mi aspettavo che lo fosse a un livello tale anche dal punto di vista letterario. Certo, molti riferimenti non sono del tutto comprensibili, parte di quanto raccontato riguarda la cultura cinetelevisiva strettamente statunitense (e alcune cose citate credo che da noi non siano mai neanche state trasmesse), però finché si parla di serie come “Mannix”, “Ricercato vivo o morto” (la serie che lanciò Steve McQueen) o “Due onesti fuorilegge” ci si può arrivare ed è interessante immaginare un lungo filo rosso che unisce insieme tante diverse produzioni, un filo che si avvolge a gomitolo in un percorso intricato, ma godibile.

La storia è sostanzialmente la stessa del film, ci sono Rick Dalton, l’attore in crisi e il suo stuntman amico e factotum Cliff Booth, c’è Sharon Tate con i suoi sogni e la Manson Family, attori e registi al top come Roman Polanski e Steve McQueen e stelle cadenti come Aldo Ray che, dopo aver lavorato con celebrità del calibro di Bogart e Katharine Hepburn, finirà in filmacci come quelli diretti da Al Adamson (nome che è l’emblema di un brutto cinema, ma che Tarantino, nella sua voracità, sembra conoscere bene, citandolo più volte). La scrittura dà la possibilità all’autore non solo di raccontare più cose con maggiori dettagli, ma anche di spiegare meglio i caratteri e le motivazioni dei propri personaggi. Quando il Tarantino “narratore onnisciente” si immerge nei personaggi è una vera e propria goduria e le pagine volano via senza accorgersene. Così scopriamo un po’ del passato di Booth, eroe di guerra, del perché ha quel cane (un racconto degno del migliore Joe R. Lansdale o di quel Elmore Leonard, dal cui “Punch al rum” Tarantino trasse il suo “Jackie Brown”), veniamo a sapere i retroscena dei suoi omicidi, quello della moglie compreso, e di come l’ha fatta sempre franca. Perfino l’incontro / scontro con Bruce Lee è molto più chiaro e anche le motivazioni del campione di arti marziali vengono attentamente indagate. Allo stesso modo tutti i dubbi e le insicurezze di Dalton sono meglio esplicitate, il suo sentirsi ai margini di un sistema che sembra ormai offrirgli poche possibilità di riscatto e allo stesso tempo la sua caparbietà, l’ostinazione profonda a voler dimostrare di essere ancora qualcuno.

Attraverso gli occhi dei personaggi possiamo inoltre vedere non solo la conoscenza profonda che l’autore ha del cinema (made in Usa, internazionale e italiano), ma anche diverse concezioni e punti di vista. L’idea di cinema di Booth, che riempie le ore vuote del suo tempo tra una sala cinematografica e l’altra, sconta un inevitabile paragone con quello che è stato il suo passato, in guerra. Cliff apprezza i film in cui il narrato si avvicina il più possibile al vero. Al contrario Dalton vive ricordando i set che ha frequentato, con chi ha lavorato e se il “prodotto finale” fosse poi degno di nota. Valuta la forza del film, il suo successo. È divertente quando un regista paragona il personaggio che Rick deve interpretare ad Amleto e fa continui riferimenti shakespeariani, mentre siamo sul set di un telefilm western, e Dalton ammicca, ma dentro di sé è consapevole di non avere i riferimenti culturali adeguati. Lo stesso Manson è visto non solo come manipolatore e corruttore di giovani, ma anche come aspirante cantautore mancato. E la scena, raccontata anche nel film, in cui si reca nella casa vicino a quella di Dalton, mentre Cliff è sul tetto ad aggiustare l’antenna, assume un significato più profondo.

Poi ci sono un sacco di altre cose. L’aneddoto di Dalton che avrebbe potuto avere la parte di Steve McQueen ne “La grande fuga”, i baffoni da hippy appioppati al personaggio di Caleb, sul set di “Lancer” (serie vera), tanto agognati da James Stacy (attore realmente esistito) e il rapporto tra Rick (come sappiamo personaggio inventato), sullo stesso set, e la piccola attrice Trudi Fraser (altro personaggio inventato, che già da bambina aspira a vincere l’oscar, ma il futuro le riserverà solo una nomination come miglior attrice protagonista in un film… di Quentin Tarantino, che non esiste!). Altre chicche: un elogio a una inquadratura particolare di Polanski in “Rosemary’s baby” e la spiegazione del ruolo non accreditato ufficialmente del “ringer”.

Il romanzo si chiude con una nota di speranza, almeno per Rick, che sembra aver fatto pace con sé stesso, dopo una conversazione (che nel film non c’è) niente popò di meno che con Steve McQueen e una telefonata con Trudi (scena girata, ma tagliata dalla versione finale della pellicola) che gli fa capire che, in fin dei conti, lavorare come attore non è sta grande tragedia, anzi, è una fortuna che pochi possono permettersi.

Che cosa manca? Beh, rispetto al film, l’aggressione che finisce con il lanciafiamme è solo accennata e, quando Cliff si reca al ranch occupato dalla Manson family, non c’è la spassosa scena in cui, dopo aver trovato una gomma bucata alla sua auto (in realtà è la Cadillac Coupe de Ville del 1966 color giallo crema di Dalton), costringe il tizio che ha commesso quel gesto a cambiare la ruota.

Un’allegra cavalcata in discesa di quasi 400 pagine e ne avrei lette altrettante, alla fine. Io non so se davvero Tarantino terminerà la sua carriera da regista dopo il decimo film (di cui ancora non si sa nulla); spero proprio di no, ma mi auguro che almeno continui a scrivere, perché, per dirlo in modo pulp, lo fa fottutamente bene.

La guerra delle salamandre di Karel Capek

Ci sono libri che oltre a un valore letterario hanno una forte valenza simbolica. Questo scritto è un apologo venato di un’amarissima ironia: si affrontano ora col tono del romanzo, ora con la precisione di un trattato storico scientifico temi quali lo sfruttamento, la guerra, la sopraffazione.

Nei mari del sud viene scoperta una specie del tutto particolare di animale anfibio in grado di apprendere e perfino di comunicare. Che cosa accadrà quando questa specie acquisterà coscienza della propria identità di razza?

Scritto nel 1936, quando il mondo era già sull’orlo del conflitto mondiale, ha la forza evocativa del 1984 orwelliano o di Fahrenheit 451 di Ray Bradbury. Stranamente non è molto noto e io l’ho trovato quasi per caso. L’autore è uno scrittore e giornalista ceco che oltre che per questo romanzo è noto per il dramma R.U.R. (Rossums Universal Robots), nel quale compare per la prima volta il termine robot.

Consigliatissimo.