031 – The Watcher

La miniserie di Netflix, ispirata da una storia vera, è un horror godibile ben scritto e con un cast di assoluto livello.

Dopo Dahmer, Ryan Murphy realizza un’altra serie che sta riscuotendo molto successo. Si intitola The Watcher ed è suddivisa in sette episodi. La vicenda si ispira a fatti realmente accaduti e ne sviluppa le conseguenze in chiave thrilling e soprattutto horror. I coniugi Brannock, stanchi della vita in città, decidono di comprarsi “la casa dei sogni” in una periferia (apparentemente) tranquilla. Dopo l’iniziale euforia, cominciano però a sorgere dei problemi.

Il vicinato non appare molto socievole, c’è subito un battibecco riguardo a siepi e confini e inquietanti personaggi rivendicano il diritto di poter accedere alla casa per utilizzarne il montavivande. Di seguito arrivano lettere anonime dal tono sempre più minaccioso. E, mentre la polizia sembra poco interessata a scoprire chi minaccia l’incolumità della famiglia, l’installazione di un sistema di sicurezza non appare una soluzione decisiva, e l’agente immobiliare sembra voler spingere alla vendita della casa (il che vorrebbe dire perdere un sacco di soldi), la coppia, tramite un’investigatrice privata, scopre una serie di fatti sanguinosi accaduti nella dimora anni prima. Episodi che l’agenzia immobiliare si è ben guardata dal raccontare, prima dell’accordo di vendita.

A tutto ciò si unisca la storia di un professore da sempre “innamorato” delle case, i problemi sul lavoro di Dean Brannock, che dopo il grande investimento nella nuova casa sperava di diventare socio del suo studio, ma la strada gli sembra preclusa, i difficili rapporti con i figli adolescenti, specialmente con Ellie e l’idea che esistano passaggi segreti dai quali malintenzionati possano penetrare nella dimora senza venire inquadrati dalle telecamere di sicurezza.

Questi sono gli elementi della storia, abilmente amalgamati che portano a diversi capovolgimenti di fronte e colpi di scena anche imprevedibili. Murphy ha già dimostrato in American Horror Story non solo di conoscere, saper maneggiare e rinnovare la materia e il genere orrorifico, ma anche di essere abilissimo a “giocare” con i personaggi, nessuno è mai completamente innocente e tutti possono essere sospettati, anche chi sembra una semplice vittima.

In ciò è anche agevolato da un cast veramente all’altezza, anche in momenti in cui si rischiava di cadere dal grottesco al comico, come in alcune scene del penultimo episodio, ma non dico altro. A interpretare Dean e Nora Brannock troviamo Bobby Cannavale (Nine Perfect Strangers, Ant-Man) e Naomi Watts (King Kong, The Ring, La promessa dell’assassino). I vicini di casa sono una Mia Farrow veramente da paura e Margo Martindale (personaggio ricorrente nel ruolo di sé stessa, ma pazza e violenta in Bojack Horseman), l’agente immobiliare è Jennifer Coolidge (indimenticata milf di American Pie). Poi c’è il poliziotto “svogliato” interpretato da Christopher McDonald (Requiem for a dream) e il professore amante delle case che ha il volto di Michael Nouri (qualcuno se lo ricorda in Flashdance ?).

Serie consigliatissima, visibile sulla piattaforma Netflix.

Donne fantastiche che viaggiano nel tempo sull’orlo della pazzia

Russian Doll & Undone: due serie molto diverse che però hanno più di una caratteristica che le accomuna.

Da qualche mese sono disponibili, su due differenti piattaforme, due serie molto diverse tra loro per quanto riguarda la narrazione, ma che hanno una serie di caratteristiche che in qualche modo le rendono accostabili. Sono entrambe alla seconda stagione e contano entrambe meno di dieci episodi a stagione, ma questi sarebbero futili dettagli. La vera comunanza è il fatto che le protagoniste delle due serie sono entrambe donne (e di un certo carattere, finalmente personaggi femminili a tutto tondo e non solo “belle statuine”), che hanno particolari doti che permettono loro di viaggiare nel tempo (e nello spazio), apparendo ai più come persone leggermente disturbate, lasciando il velato dubbio che quanto succede accada solo nella loro mente, ma questo non è uno spoiler. Altra caratteristica comune, che vorrei rilevare prima di scendere nello specifico, è che, dopo una prima stagione con archi narrativi difficilmente paragonabili, nella seconda, pur con le dovute differenze, anche la narrazione presenta tematiche confrontabili: l’indagine sul passato della propria famiglia è di sicuro la più evidente.

Russian Doll

Nella prima stagione di Russian Doll, la protagonista Nadia si trova intrappolata in un loop temporale che parte dalla festa per il suo trentaseiesimo compleanno e finisce immancabilmente con una morte violenta, sempre diversa. Poi tutto riparte da capo (un po’ come il famoso “Giorno della marmotta“, ma con esito tragico). Cercando di restare viva, la giovane dovrà capire come uscire da questo intreccio trovando un’altra persona che sta vivendo il suo stesso dramma. Non dico altro per non rivelare troppo, anche se questa stagione è del 2019.

Nella seconda stagione, del 2022, c’è un salto temporale, Nadia sta per compiere i 40 e stavolta sarà un viaggio in metropolitana a scatenare l’imprevisto. Verrà sbalzata indietro di quarant’anni e si troverà inspiegabilmente negli anni 80. Il viaggio a ritroso è avvenuto in un modo che ricorda un po’ un telefilm anni 80-90 che si intitolava “Quantum Leap“, Nadia conserva la propria coscienza, ma si trova a vivere nel corpo di un’altra persona (sua madre, incinta di lei, tra l’altro). Dopo un primo viaggio la donna comincerà a chiedersi se quello che sapeva, e che le hanno sempre raccontato, su sua madre (e sulla sua famiglia in generale) sia vero o se esistano segreti che qualcuno le ha nascosto. Sua madre, tanto per cominciare, era davvero pazza? Per arrivare al fondo della questione, e di altre in realtà, vengono sviluppati differenti archi narrativi (molto interessante quello che riguarda il solito personaggio, Alan, che anche stavolta, come nella precedente stagione, condivide questa nuova sventura), dovrà ripetere più volte l’esperienza, viaggiando anche attraverso altre epoche storiche, fino a che tutto l’insieme di esperienze un po’ folli che la coinvolgono comincerà ad avere senso. La seconda stagione alza l’asticella rispetto alla prima, si presenta molto più complessa, ma risolve, a suo modo, le questioni che pone. L’elemento che spiazza è il fatto che nulla venga preso troppo sul serio, Nadia è una tosta, una tizia coriacea che nelle stranezze ci sguazza e ci si diverte, smontando con ironia e sarcasmo anche le situazioni più assurde, drammatiche e pesanti, quelle che potrebbero rendere una serie un po’ spocchiosa, perché crede un po’ troppo in sé stessa (avete presente Dark? non la nominerò più).

Russian Doll, creata da Leslye Headland, Amy Poehler e Natasha Lyonne, che interpreta Nadia (e che fu nel cast di “Orange is the New Black“), è disponibile su Netflix.

Undone

Nella prima stagione di Undone, del 2019, Alma, dopo un incidente automobilistico in cui ha rischiato la vita, riesce a riconnettersi con la coscienza di suo padre, morto quando lei era bambina. Lui l’aiuterà a sviluppare le proprie capacità per spostarsi nel tempo allo scopo di scoprire come è realmente morto. La ragazza si convince di poter cambiare la storia e fare in modo di salvarlo.

Nella seconda stagione, uscita nel 2022, Alma si trova a vivere un’esistenza completamente differente, ma non tutti i problemi sono risolti. Nella sua mente i ricordi della precedente vita non si sono ancora assopiti e nemmeno la voglia di saltellare nel tempo lo è. Inoltre, dopo aver scoperto che anche sua sorella Becca è in grado di viaggiare come fa lei, Alma cerca di convincerla a indagare nella vita passata della famiglia, ritenendo che la loro madre nasconda un segreto che le provoca una grande sofferenza. Becca in un primo momento è restia a lasciarsi convincere, anche perché ha altri pensieri per la mente (sta per sposarsi), ma alla fine accetta. Così, nonostante suo padre la ammonisca sui rischi che le loro azioni potrebbero provocare sulla nuova linea temporale, Alma conduce Becca in una serie di salti temporali, fino a scoprire la verità, ma a quale costo?

Undone è una serie Prime, con la bravissima Rosa Salazar nel ruolo di Alma e Bob OdenKirk (Breaking Bad – Better Call Saul) nella parte di suo padre Jacob. E’ realizzata in rotoscope, quella tecnica attraverso la quale si ridisegna sopra il girato in modo da ottenere una serie animata (come per il film A Scanner Darkly, tratto da Philip Dick, per la regia di Richard Linklater, ma immagino che dal 2006 la tecnologia si sia parecchio evoluta) ed è creata da Raphael Bob-Waksberg e Kate Purdy, ossia le menti dietro a quel capolavoro che è stato (è e sempre sarà) Bojack Horseman. Questo per dire che la scrittura, i dialoghi, le situazioni, lo studio dei personaggi sono a livelli altissimi. Come nel caso di Russian Doll, non ci si appiattisce sull’evento fantastico dimenticando tutto il resto, ma è appunto l’insolito ad inserirsi armonicamente, se così si può dire, in un contesto verosimile, credibile e abilmente dettagliato.

Se quindi vi piace la fantascienza, del tipo “succedono cose strane, ma va bene anche se non mi spieghi per filo e per segno scientificamente il perché di quello che accade”, se amate il fantastico, il weird, ma soprattutto le serie scritte bene, con personaggi che sembrano persone a tutto tondo, con pregi, difetti, dubbi e paure e non delle semplici figurine in balìa degli eventi, bene, queste due serie fanno per voi.

Buona visione.

Resident Alien, fantascienza, ma non solo

Resident Alien, visibile in Italia su Tim Vision, è una serie che parte da un plot sci-fi abbastanza classico, ma che si sviluppa in modo interessante.

Tratta dal fumetto di Peter Hogan e Steve Parkhouse, Resident Alien è una serie fantascientifica che parte da una trama che potrebbe sembrare “già vista”, ma che riesce a risultare interessante grazie a una serie di elementi dosati in modo intelligente e interessante. Il plot, in breve. Un alieno partito per distruggere la razza umana ha un incidente, precipita sulla terra ed è costretto ad assumere sembianze umane per portare a compimento il suo scopo: recuperare l’astronave e l’elemento di distruzione, finito sotto un ghiacciaio.

Fin qui sembrerebbe tutto già visto, ma ecco che la sceneggiatura assume aspetti intriganti che portano a sviluppi imprevedibili. Innanzi tutto l’alieno non sa nulla di come si comportano gli umani. Impara la lingua facendo un binge watching di “Law & Order” (e gli capiterà di ripetere il suono che c’è a inizio di ogni puntata come se fosse un intercalare noto a tutti), ma questo assolutamente non basta, perché il problema non è solo la lingua, ma se ne accorgerà troppo tardi.

Il corpo di cui ha preso le sembianze è quello di un medico che vive isolato in una baita, ideale per un alieno che vuole stare solo a fare le sue ricerche. Il caso vuole però che il medico del paese più vicino venga ucciso e l’alieno-dottore sia chiamato a prendere il suo posto. L’elemento fantascientifico e giallo si sporca inevitabilmente di humor (spesso nero), date le difficoltà dell’alieno a integrarsi e anche da un fattore ulteriore. Esiste un’esigua percentuale di umani che possiede un particolare cromosoma che permette di vedere il vero aspetto dell’alieno sotto il suo camuffamento. Uno di questi umani abita nel paesello ed è un bambino. Le scenette tra bambino e alieno sono davvero spassose.

Alla riuscita mescolanza dei generi aggiungerei un’ottimo studio dei personaggi (non so se nel fumetto sia tutto così ben riuscito, me lo vorrei recuperare nel frattempo), dai principali fino a quelli in secondo piano. Nella parte del protagonista, il medico Harry (l’alieno ha un nome abbastanza impronunciabile), il bravissimo Alan Tudyk, uomo dalla faccia normalissima, ma che assume delle espressioni davvero comiche quando è chiaro che non capisce come debba comportarsi (in Funeral Party era Simon, l’uomo che faceva follie sotto anfetamina e in Doom Patrol interpreta Mr. Nobody, uno dei cattivi più assurdi di sempre). Poi abbiamo due amiche dalle storie (anche sentimentali) complicate: Sara Tomko è Asta, assistente del medico ucciso e madre segreta, mentre Alice Weetelund è D’arcy, disinibita proprietaria del bar della città ed ex campionessa di sci (infortunatasi alle olimpiadi di Torino 2006).

Completano il quadro uno sceriffo smargiasso e un po’ tonto (in grado di condurre, da solo, un interrogatorio bipolare in cui fa la parte sia del poliziotto buono che di quello cattivo, Corey Reynolds, già poliziotto in The Closer) coadiuvato da una vice dimessa, ma che sembra l’unica a svolgere indagini sensate; la famiglia del sindaco del paese (padre di Judah, il bimbo che vede l’alieno nel suo vero aspetto) e una serie di spietati man in black, ma non chiamateli così, sulle tracce dell’oggetto volante non identificato, capitanati da Linda Hamilton (la Sara Connor di Terminator). Non mancano riferimenti ad altre specie extraterrestri: una visita a un convegno di gente che crede alle invasioni aliene ci fa capire che la storia potrebbe prestarsi ad altri intrecci, anche sul piano spaziale.

Ogni episodio si conclude con un colpo di scena o un cliffhanger azzeccato per tenere alta la tensione e l’interesse, espediente di sicuro non nuovo, ma che bisogna saper usare e qui mi pare sia utilizzato al meglio.

La serie è attualmente in produzione, ci sono due stagioni, ma su Tim Vision è visibile solo la prima.

I fantasmagorici universi di Gianfranco Manfredi

-Manfredi chi, l’attore?

-Sì, è stato anche attore, sceneggiatore cinematografico e televisivo (mi ricordo Valentina, tratto dai fumetti di Crepax, con una prorompente Demetra Hampton e Colletti Bianchi con Giorgio Faletti).

-Ah, il grande Nino!

-No, non esattamente lui. Principalmente scrive.

-Ok, ho capito, allora deve essere l’immenso Valerio Massimo, l’autore di Aléxandros!!!

-Ehm, no, nemmeno.

-E, allora chi è?

Si chiama Gianfranco Manfredi ed è uno degli autori più prolifici che io conosca, se non per il numero di libri, per il raggio d’azione tra i vari media e i generi più disparati che ha esplorato.

Classe 1948, nato a Senigallia, ma milanese d’adozione, si stabilisce a Milano dove studia, si laurea in Storia della Filosofia e comincia la sua carriera di cantautore (alcuni suoi dischi si trovano anche su Tim Music, io ad esempio ho ascoltato Zombie di tutto il mondo unitevi del 1977, ovviamente parla di tematiche care ai cantori rivoluzionari dell’epoca, però l’ho trovato gradevole e decisamente non banale). Ha collaborato con Ricky Gianco, Mia Martini, PFM, Gianna Nannini, Drupi, Gino Paoli, Mina e Giorgio Faletti, per fare i nomi più noti.

Dai primi anni 90 si dedica alle sceneggiature di fumetti. Con l’Editoriale Dardo crea Gordon Link, fumetto horror simil bonelli con un protagonista che ha il volto dell’attore Kyle MacLachlan, a quei tempi famoso per il ruolo dell’agente Cooper di Twin Peaks. Si tratta ovviamente di uno degli epigoni di Dylan Dog, uno tra i meglio riusciti a dire il vero, dato lo spessore della scrittura di Manfredi, basata su una solida documentazione che traspare da ogni sua opera. L’avventura dura circa due anni e, dopo la chiusura della testata, Manfredi comincia a collaborare con la Bonelli Editore. Scrive storie per Tex, Mister No, Nick Raider e per lo stesso Dylan Dog. Successivamente crea nuove testate tutte sue, sempre targate Bonelli, come Magico Vento, Volto Nascosto e Shangai Devil. I suoi fumetti fanno il giro del mondo, sono tradotti anche in India e USA.

Manfredi però è anche un romanziere con i controfiocchi e affronta con originalità diversi generi che vanno dall’horror al noir, dal romanzo a sfondo storico a quello di fantascienza. Di seguito qualche esempio (quelli che ho letto).

Magia Rossa (1983). Romanzo gotico ambientato nella Milano degli anni 70 che si intreccia con la storia milanese rivoluzionaria e scapigliata del passato, da dove un oscuro mago, che millanta di avere strani poteri occulti, sembra essere ritornato in vita nel tempo presente. Sarà una concreta minaccia per la vita di un consulente di archeologia industriale che lavora al Museo della Scienza, di un suo amico che ha scritto un articolo indagine sul mago stesso, e della donna che è stata fidanzata dei due.

Ultimi Vampiri (1987). Libro di racconti a tema vampiresco, scritto in stile molto classico, ricorda un po’ i racconti di Poe. Questo libro, ripubblicato come quasi tutti i vecchi romanzi di Manfredi, in origine era uno di quei piccoli tascabili Feltrinelli, trovato su una bancarella di libri usati fuori dall’università in un tempo lontanissimo, prima che Ibs e Amazon (non me ne vogliano, sono utilissimi) cancellassero la poesia della ricerca di un libro fisico nei vari mercatini e librerie sgarrupate.

Trainspotter (1989) (Sì, prima di Trainspotting!) Romanzo noir atipico e avvincente. Ricordo molto poco della trama, dovrei rileggerlo, però ricordo l’ambientazione (una città di respiro europeo chiamata Hinterland), un profondo senso claustrofobico e un particolare del finale (che non è esattamente uno spoiler): il protagonista fa di tutto perché una serie di eventi appaia in un certo modo, ma la gente capisce tutta un’altra cosa, imprevedibilmente. Mai letto un finale così! Girava voce che dovessero farne un film, ma poi non ne ho più sentito parlare.

Il peggio deve venire (1992). Un romanzo dark e action che sembra a tratti un violentissimo videogame, ma nel percorso di morte che si trova ad affrontare il protagonista i pericoli sono concreti e reali.

La fuga del cavallo morto (1993) Una sorta versione grottesca del Fu Mattia Pascal, un po’ disperata, un po’ da ridere. Il protagonista è un comico televisivo, uno stand up comedian (quando ancora in Italia non li chiamavano così) appassionato di battute vintage, giochi di parole arzigogolati, come lo diventa la sua stessa vita.

Una fortuna d’annata (2000). Altro giallo atipico che ruota attorno alla vincita milionaria della lotteria di capodanno. Il biglietto vincente è stato venduto in un paesino di montagna, un giornalista vuole scoprire chi è il fortunato vincitore, ma c’è qualcuno pronto a uccidere per accaparrarsi il tagliando del premio.

Il piccolo diavolo nero (2001) Milano 1893, arriva la bicicletta. Un gruppo di giovani amanti del nuovo mezzo ha come idolo il mitico corridore milanese Romolo Buni, soprannominato dai francesi il “piccolo diavolo nero”, che ha raccolto la sfida di Buffalo Bill per un’epica gara di tre giorni, bicicletta contro cavallo. Ma si tratta del vero Buffalo Bill o di un impostore? Un giornalista cercherà di scoprire la verità.

Ultimamente ho preso due altri suoi romanzi che devo ancora leggere, Splendore a Shangai del 2017, storia di un pianista che tra gli anni 20 e 30 viene ingaggiato per un concerto nell’estremo oriente e RAM, le immagini permanenti del 2021, che ho appena iniziato, storia di una invasione marziana narrata tra il filosofico e il weird (un incrocio tra Fritz Leiber e Ray Bradbury, si legge in quarta di copertina). I marziani arrivano sulla terra per invaderla, ma della razza umana non c’è più traccia e spetterà a Ram, delegato dal Gran Consiglio marziano, scoprire che fine ha fatto, analizzando la storia umana tramite le immagini che si è lasciata alle spalle.

Rubo, cioè condivido, questo video dal canale Youtube della Bonelli che mostra Manfredi nel suo studio.

M.A.S.H., la sgangherata epopea che dileggia la guerra

Scritto nel 1968 da Richard Hooker, chirurgo americano che prestò servizio come ufficiale medico durante la guerra di Corea, con la collaborazione del giornalista W. C. Heinz, M.A.S.H. divenne un caso letterario, un best seller seminale sia per opere letterarie (Hooker partecipò alla scrittura soltanto dei primi due romanzi – sequel), sia cinematografiche e televisive.

Partendo da esperienze personali e da storie viste o sentite da altri commilitoni, Hooker racconta varie vicissitudini che si svolgono nel 4077° Mash, Medical Army Surgical Hospital, uno degli ospedali da campo dislocati dietro le prime linee durante la guerra in Corea. Il tono è irriverente e scanzonato, per quanto possibile, e antimilitarista (non si parla mai dell’andamento o delle ragioni del conflitto). Alle “gambe delle donne”, così viene chiamato il complesso delle tende, si ritrovano tre medici tanto bravi nel loro mestiere, quanto irriverenti verso i superiori. “I mostri della palude”, così si fanno chiamare, la fanno sempre franca, solo in virtù della propria abilità medica di “bassa macelleria”, che consiste nel rattoppare, aggiustare e sostanzialmente salvare vite, spesso al fine di trasportare i feriti in ospedali più attrezzati.

“Occhio di Falco” Pierce, il “Duca” Forrest e John “Trappolone” McIntyre sono sempre pronti non solo a bere e a fare i matti, ma si imbarcano in imprese folli e imprevedibili, come quando si vogliono liberare di un compagno di tenda ultra religioso, quando possono aiutare un amico (Cassiodoro, il carezzevole cavadenti, dentista del campo) che non ha più voglia di vivere inscenando un rito di suicidio che avrà un esito inatteso, quando hanno l’occasione di farsi una bella partita a golf prendendo per i fondelli un po’ di superiori o quando c’è un bambino da salvare e riescono a farlo adottare da qualcuno che se ne prenderà cura. Per non parlare dei sotterfugi per vincere un’impossibile partita di football contro degli avversari troppo forti. Attorno a loro una girandola di personaggi davvero memorabili. Scritto in modo abbastanza tradizionale, in uno stile asciutto quasi giornalistico senza fronzoli e lungaggini (ci sono alcuni passaggi in cui si parla di operazioni chirurgiche in modo un po’ tecnico, ma comprensibile, senza appesantire le vicende) è un libro divertente, che comunque offre spunti di riflessione, perché l’insensatezza della guerra e lo spettro della morte fanno spesso capolino.

Nel 1970 Robert Altman ne trasse un film che vinse il premio Oscar per la migliore sceneggiatura non originale e la Palma d’Oro al Festival di Cannes. Nel cast Donald Sutherland (Occhio di Falco), Elliot Gould (Trappolone, “razzo” nella traduzione italiana), Tom Skerrit (il Duca, a proposito di Skerrit, prima o poi gli dedicherò un post come caso umano, ossia, una stella mancata: ha partecipato a molti film importanti sempre in ruoli minori e pochi si ricordano di lui… che, ad esempio è il capitano Dallas della Nostromo nel primo Alien, ma chi se la ricorda la sua faccia? Io sì, ma non divaghiamo) e Robert Duvall nella parte del maggiore Burns, l’ultra religioso di cui sopra. Il produttore chiese fino all’ultimo ad Altman di smorzare un po’ i toni di una sceneggiatura un po’ sboccata (e a tratti sessista, ma l’ambiente militare quello era), con scene abbastanza cruente in sala operatoria e altre dissacranti, tipo la parodia dell’ultima cena prima del “suicidio” di Cassiodoro, ma il regista non cedette di un passo e la pellicola riscosse anche un grande successo commerciale. Era in corso la guerra in Vietnam in quegli anni, il film è ambientato in Corea, ma i riferimenti alla situazione dell’epoca si possono facilmente cogliere. Una satira che in qualche modo sbeffeggia l’amministrazione Nixon, pochi anni prima del caso Watergate. Dopo questo film e dato il suo successo, Altman poté dedicarsi esclusivamente a progetti a lui graditi. Attualmente il film è nel catalogo di NOW Tv (fino a marzo, mi pare).

Poi venne la serie tv. Andò in onda dal 1972 al 1983, undici stagioni, 256 episodi. Da questa serie emerse Alan Alda, nel ruolo di Occhio di Falco, che diventò prevalente rispetto al coprotagonista Wayne Rogers, che interpretava Trappolone. Infatti poi, per dissapori di vario tipo, Rogers mollò la serie e vennero introdotti altri personaggi a contorno. Dati i temi trattati fu una di quelle serie televisive invise all’amministrazione Reagan (un’altra fu quella dedicata al giornalista Lou Grant, interpretato da Ed Asner), che in qualche modo pare riuscì a farla chiudere. Sia nel film che nella serie tv il personaggio di Walter Eugene “Radar” O’Reilly, l’esperto delle telecomunicazioni, è interpretato dallo stesso attore, l’occhialuto Gary Burghoff.

Ci furono anche altri spin-off, alcuni col tono smaccatamente da sit com. Il più riuscito e che ebbe maggior successo fu il telefilm Trapper John MD, serie che riprendeva il personaggio di Trappolone McIntyre e ne narrava la vita dopo l’esperienza in Corea. Trapper, interpretato da Pernell Roberts, torna a San Francisco ed esercita come capo chirurgo al Memorial Hospital. Al suo fianco, Alonzo “Gonzo” Gates, interpretato da Gregory Harrison, chirurgo un po’ hippy (vive in un camper parcheggiato fuori dall’ospedale), il quale è stato medico durante il conflitto in Vietnam. Le dinamiche tra i due chirurghi veterani di due guerre diverse, ma molto simili fanno spesso da motore alla vicenda. Non manca ovviamente il direttore dell’ospedale da dileggiare alla bisogna. Ricordo questa serie perché andava in onda nei primi anni 80 su Rai due in quella fascia preserale, che non si chiamava ancora così, era solo “prima del telegiornale delle 20”. La musica della sigla potrebbe accendere qualche ricordo, io la vedevo da piccolo, ma l’aggancio con M.A.S.H. l’ho fatto molto dopo.

Finisce con un film la storia di Ray Donovan, il “fixer” che nessuno vorrebbe incontrare

Che succede, non siete stati esattamente gentiluomini con quella ragazza conosciuta la sera scorsa in un locale dove non eravate mai stati? Avete fatto i gradassi con un collega che sembrava sfigato, senza sapere che ha delle conoscenze? Vi siete messi in un affare più grande di voi, pestando i piedi  a qualcuno che non sospettavate non fosse un agnellino? Avete comprato qualcosa all’asta spuntandola all’ultimo secondo su un vecchio che sembrava inerme, ma che ha continuato a guardarvi parecchio male? Ecco, la vedete quella bella auto scura parcheggiata sotto casa vostra? Vedete, è sceso un uomo con un abito nero slim fit che gli calza a pennello, camicia bianca, niente cravatta, un’ombra di barba e uno sguardo di ghiaccio. Osservate che cosa sta facendo, gira attorno all’auto, apre il bagagliaio ed estrae una mazza da baseball. Bene, ora potete cominciare a preoccuparvi.

Ray Donovan è un fixer, un tizio tosto che “aggiusta le cose”, di solito per personalità di un certo livello, gente che paga bene, in quel pazzo micro universo che è la città di Los Angeles. Cerca di evitare il più possibile la violenza, ma ogni tanto qualche ricattuccio o qualche velata minaccia gli scappa. La cosa fondamentale è tenersi lontano dalla galera, perché Ray non è nemmeno stupido, non come suo padre, che si è fatto incastrare ben bene. Tanto è freddo, preciso e spietato sul lavoro, quanto la sua vita personale è piena di problemi, che spesso non sono direttamente provocati da lui, ma gli piovono addosso suo malgrado. Sul lavoro ha due collaboratori assolutamente validi, Avi, ex militare israeliano ed ex spia e Lena, un’investigatrice davvero abile e caparbia.

Ray però ha anche una famiglia, una moglie, due figli (Bridget e Conor) e due fratelli. Abby, sua moglie, ha sempre paura che lui le sia infedele (Ray ha un appartamento lontano da casa, oltre al suo ufficio, ma lo usa come spazio neutro tra la sua vita famigliare e quella lavorativa), i figli sono figli e danno tutti i problemi che possono dare due adolescenti, oltretutto cresciuti nel lusso (non come Ray, che ha raggiunto un’apparente rispettabilità sputando sangue), mentre i due fratelli, pur essendo adulti, riescono anch’essi a essere spesso e volentieri fonte di preoccupazione. Terry, il maggiore, è un ex pugile che, affetto dal parkinson, ha aperto una palestra, di cui Ray è socio (di maggioranza credo, anche se lascia che gestisca tutto Terry come se fosse l’unico proprietario), nella quale bazzica anche l’altro fratello, Bunchy, ex alcolizzato e un po’ tonto. Le cose si complicano ulteriormente con l’uscita di galera di Mickey, padre di Ray. Di origine irlandese, testone e orgoglioso (finché gli fa comodo), questi è un inaffidabile traffichino imbroglione sempre alla ricerca del colpo che gli svolti la vita, il che lo porta a compiere un cumulo di azioni sconsiderate, alle quali alle volte Ray si trova costretto a porre rimedio. Il problema è che c’è molta ruggine tra padre e figlio, esistono fantasmi del loro passato che solo in parte potranno essere cancellati e tanta acredine, sedimentata negli anni, ha reso il loro rapporto difficile, per non dire irrisolto. Ray per i primi tempi cercherà di evitarlo e di non parlargli nemmeno, ma troppe cose si assommano, come la comparsa imprevista di un fratellastro di colore (Mickey non nasconde una smodata passione per le donne di colore), Daryll, un aspirante pugile di scarso talento, che si unirà alla banda della palestra e contribuirà a portare pure lui nuovi guai.

Il cast è di tutto rispetto, Ray è interpretato di Liev Schreiber (The Manchurian Candidate, X-Men le origini – Wolverine), suo padre è un immenso Jon Voight (Un uomo da marciapiede, Un tranquillo weekend di paura e un sacco di altre cose, oltre a essere il padre di Angelina Jolie), Terry è l’altrettanto bravo Eddie Marsan (Still Life), Abby ha il volto di Paula Malcomson (Il miglio verde, la serie di Hunger Games) e Avi è Steven Bauer (Scarface, Breaking Bad e Better Call Saul). Compaiono anche altri grandi attori come Elliot Gould, nella parte di Ezra Goodman uno dei principali procacciatori di affari per Ray, Alan Alda e Susan Sarandon.

La serie è targata Showtime e oltre Los Angeles ha avuto come sfondo parte dell’Irlanda, dove affondano origini, parentele e (brutte) conoscenze della famiglia Donovan e una stagione è ambientata a New York, dove Ray si reca per cercare di superare un momento davvero difficile. La settima stagione, in cui l’ambientazione è tornata a Los Angeles, è stata l’ultima prima della cancellazione della serie. Trasmessa tra il 2019 e il 2020 termina con un cliffhanger, non ha un vero e proprio finale. Mickey è in fuga e Ray è intento a cercarlo prima che possa causare altre uccisioni e disastri vari. La rete americana aveva annunciato che la vicenda avrebbe avuto un finale in un film per la televisione e lo scorso 14 gennaio il film è andato in onda.

Non si hanno ancora notizie su dove e quando lo potremo vedere da noi. Intanto le sette stagioni regolari sono su Netflix, se vi aggrada il genere, dateci un’occhiata.

Qui sotto il trailer del film.

Ficarra e Picone “Incastrati” su Netflix

Ficarra e Picone mi sono sempre stati simpatici fin dai tempi in cui si esibivano a Zelig nei primi anni 2000. La loro principale caratteristica è quella della leggerezza. Hanno la capacità di parlare anche di argomenti non facili con grande ironia, senza mai scadere nella volgarità, il che di questi tempi non è davvero poco. Partendo da semplici frasi riescono a imbastire ogni pezzo comico con una dialettica davvero irresistibile tra i due personaggi che incarnano, uno più aggressivo e l’altro all’apparenza più remissivo e sognante. Un manuale di scuola di teatro, con tempi comici perfetti e satira spesso spiazzante.

Hanno fatto il giro di gran parte delle trasmissioni televisive Rai e Mediaset e nel frattempo si sono dedicati al cinema, partecipando ad alcuni film in ruoli di secondo piano, fino a creare progetti cuciti su misura per le proprie corde. Non ho visto tutti i loro film, ma mi piace ricordare “Nati stanchi”, il loro primo film da protagonisti, nel quale interpretano due ragazzi del sud che non vogliono crescere e partecipano a ogni possibile concorso, solo per girare l’Italia, senza la minima intenzione di vincerne uno. Oppure “L’ora legale”, storia di un paesino dove le elezioni se le aggiudica un candidato sindaco che si fa portavoce della assoluta onestà e legalità, ma non saranno poi tutte rose e fiori.

Da qualche tempo il duo firma la regia dei propri lavori, come nel caso di “Incastrati”, serie che dall’inizio del 2022 è visibile su Netflix. Come già si può intuire dal trailer si tratta di una commedia degli equivoci in cui i due saranno scambiati per assassini e diverranno sorvegliati speciali della mafia locale. Ficarra e Picone interpretano due tecnici della tv, uno appassionato di serie televisive e marito sgangherato e l’altro ipocondriaco che vive con la madre ma sogna ancora l’amore delle scuole superiori, i quali si trovano su una scena di un crimine e fanno tutto quello che non si dovrebbe fare. La satira non risparmia nessuno: la vita coniugale, i mammoni, l’informazione, la stessa organizzazione criminale, la religione. Nel cast, oltre ai due, compaiono un bravissimo Tony Sperandeo, mafioso che ha il piccolo difetto di balbettare quando mente, Sergio Friscia nella parte di un giornalista che è la parodia di tanti inviati poco speciali che abbiamo sparsi per la penisola, Marianna di Martino, Anna Favella, moglie birichina e Leo Gullotta nella parte di un Procuratore.

Dal 27 gennaio “Incastrati” sarà visibile in 190 Paesi nel mondo.

The Wire

L’anno scorso ho finalmente colmato un vuoto culturale che mi pesava un po’. Sentivo spesso parlare di “The Wire” e ne ero sempre più incuriosito.

Non so se la metterei al primo posto nella mia classifica personale delle serie preferite, ma di sicuro è tra le prime 5 (accanto a “Soprano”, “Breaking Bad”, “Mad Men”, “Bojack Horseman”… ma in realtà non sono ancora pronto per stilarla, la classifica!).

Ambientata a Baltimora, The Wire parla di malavita, spaccio di droga, forze dell’ordine, educazione, politica, informazione e società in genere. Detta così sembrerebbe un’accozzaglia informe di elementi disparati, invece si tratta di un grande affresco distribuito su cinque stagioni, che riesce ad offrire differenti punti di vista sulle tematiche affrontate. Un racconto corale che si dipana inesorabile, come la vita. Ogni personaggio fa i conti con difficoltà e compromessi, spesso ingiusti, a volte causati da eventi totalmente casuali. Un esempio su tutti: il motivo scatenante che porta una squadra speciale a indagare nella seconda stagione sui traffici illegali del porto… Il tutto parte dall’arroganza di un becero capo di polizia che vuole incastrare il capo dei portuali, perché ha donato alla chiesa una vetrata più grande di quella che avrebbe voluto donare lui. E poi di reati se ne scopriranno, ma quella inchiesta inizia così.

Ogni stagione è incentrata su una tematica specifica, senza perdere di vista i personaggi ricorrenti. Non c’è un vero eroe, non c’è nessuno che sia senza macchia e senza paura. Anzi, succederà che i “buoni” dovranno cedere a sotterfugi e inganni per poter portare a termine indagini con fini “giusti” ( o anche solo per poter lavorare).

Maledetto, fottuto, impareggiabile realismo. D’ora in poi, quando qualcuno avrà l’ardire di affermare che in una serie “tutto torna”, dovrò per forza chiedergli se ha visto “The Wire”. Questa serie alza l’asticella del livello critico, questa serie insegna a scrivere, i dialoghi e le situazioni sono un rarissimo esempio di trasposizione verosimile quasi più vera del vero.

L’ideatore è lo scrittore David Simon, ex giornalista, dal cui libro è stata tratta la serie “Homicide” e che successivamente avrebbe creato un’altra interessantissima serie, di cui prima o poi parlerò, “The Deuce -La via del porno” con interpreti del calibro di James Franco e Maggie Gyllenhaal.

Trasmessa dal 2002 al 2008, The Wire è di proprietà di Sky e la si può vedere su NowTv.

Fortissimamente consigliata.

The Night Of – Cos’è successo quella notte?

Questa me la sarei persa, se non me l’avessero suggerita. “The Night Of – Cos’è successo quella notte?” è una miniserie HBO del 2016 che prende ispirazione da una serie inglese e che in Italia è andata in onda su Sky e ora è nel catalogo NOW. Otto episodi, di un’ora circa l’uno, l’ultimo un po’ più lungo. Si parte da una nottata in cui un ragazzo, presentato come un perfetto studente di college, secchione e un pochettino sfigato, decide di fare qualcosa al di fuori del suo comportamento abituale. Per andare a una festa, organizzata da studenti atleti che lui aiuta negli studi, prende il taxi (di proprietà di suo padre e di altri due soci) senza dirlo a nessuno e, perdendosi nella città, New York, viene travolto dagli eventi. Trova una ragazza (salita sul taxi pensando che fosse in servizio), lei lo invita a casa sua, bevono, si drogano, fanno sesso, lui si addormenta e quando si sveglia, trova lei brutalmente assassinata. In breve lo arrestano, tutte le prove sono contro di lui.

Così comincia questo romanzo visivo coinvolgente, ben scritto e ben interpretato, che non lascia nulla al caso. Si amalgamano in modo coerente la parte dell’indagine, l’aspetto legal, e le situazioni da film carcerario (perché il ragazzo verrà messo in prigione, in attesa del giudizio e per sopravvivere dovrà necessariamente cambiare). I personaggi hanno tutti sfaccettature molto realistiche e, anche quelli minori, sono interpretati egregiamente. Riz Ahmed che dà volto e corpo a Naz, il ragazzo accusato, riesce a trasmettere con soli sguardi la sua angoscia e il suo disincanto, una volta che in carcere dovrà accettare compromessi non sempre piacevoli. Micheal K. Williams (attore recentemente scomparso, noto per il suo ruolo in The Wire) è il perfetto carcerato da temere, quello che sa come funziona la prigione. Bill Camp è il detective Box, che si trova tra le mani un caso che sembra già risolto, ma ad un certo punto la sua esperienza di poliziotto veterano a un passo dalla pensione inizierà a tormentarlo riempiendolo di dubbi.

Su tutti però svetta un magistrale John Turturro, avvocato dai mille problemi (anche fisici), che si aggira nei distretti di polizia alla ricerca di disperati che abbiano bisogno di un difensore. La storia è quasi corale e la sua forza è quella di mostrare i fatti nelle diverse sfaccettature e punti di vista. Semplicemente da vedere.

Dopo avere visto questa mini serie ho cambiato opinione sugli uomini che girano indossando i sandali.