Un breve comunicato per dire che non sono scappato dall’altra parte del mondo
È da un po’ di tempo che non scrivo su questo blog e un po’ me ne rammarico. Ho alternato una vera bulimia di letture (in pratica sto leggendo 5 o 6 romanzi in contemporanea e, per forza, vado a rilento) e anche un’indigestione di storie visive, tra serie e film, quasi tutti interessanti.
Le idee ci sono, gli spunti di riflessione sono parecchi, il vero problema è trovare il tempo di buttare giù qualcosa di scritto e di concreto, tra i vari impegni della giornata, la pigrizia, la stanchezza e una certa dose di procrastinazione. Questo ultimo elemento si rivela senza dubbio il più deleterio, perché spunti e idee vaghe non bastano, bisogna coltivarle, svilupparle, metterle in ordine e dare loro vita in un discorso sensato che magari risulti in qualche modo originale. Altrimenti non so se ne valga la pena.
Eh sì, mi sono lasciato un po’ travolgere dal corso degli eventi e la voglia di fare e di scrivere si è dovuta confrontare inevitabilmente con la consapevolezza di non poter competere con realtà più grosse, con chi questa attività la fa per lavoro, giornali, redazioni, youtuber etc. e con il fatto che, come mi ero proposto fin dall’inizio, non è necessario, anche se in alcuni casi mi potrebbe interessare farlo, restare al passo con le uscite, gli eventi, tutte le manifestazioni etc.
Sono da solo. Non sono in grado di vedere o di leggere tutto (e molte cose le evito apposta) e anche i tempi di visione e di lettura non sempre sono veloci, un po’ perché, appunto, di giorno lavoro, un po’ perché alcune cose me le voglio godere e quindi il ritmo viene centellinato (ma in altri casi vengo preso dalla foga e allora una serie che mi piace me la sparo senza pensare agli effetti collaterali, un binge watching letale). Questo per dire che mi devo un po’ ridimensionare, ripensare i miei scopi, anche e soprattutto al di là di una mera serie di recensioni che, sinceramente, lascerebbero il tempo che trovano.
Per cui sto per fare una “ripartenza”, in cui cercherò da un lato di essere più costante nella pubblicazione dei post, ma dall’altro vorrei anche avere uno sguardo “laterale”, se possibile alternativo, rispetto a quello che dicevo prima: vorrei mettere in fila delle riflessioni, non semplicemente delle recensioni “scolastiche” che ognuno può trovare quasi ovunque.
Se qualcuno si fosse preoccupato, ma non credo, lo Storiofago è vivo e ha ancora fame.
Un romanzo che travalica la categorizzazione di semplice thriller di genere per regalarci una vicenda densa, profonda e coinvolgente, con personaggi credibili in cui è bello perdersi e immedesimarsi.
Quando leggo recensioni quasi esclusivamente positive di un libro, quando ogni giornale o rivista del settore o anche collega scrittore non ha che parole di esaltazione per uno scritto, tendenzialmente sono molto scettico. Se non conosco l’autore e mi ci accosto per la prima volta, può capitare che lo faccia cautamente e in modo abbastanza prevenuto, aspettando di trovarmi di fronte a un lavoro, non dico dozzinale o di facile presa, ma magari furbetto, capace di non scontentare nessuno.
Purtroppo il mio senso critico mi lancia un allarme quando qualcosa piace a tutti, temo sempre che sotto ci sia un trucco o qualcosa di peggio. Sono molto felice, però, quando i miei timori vengono smentiti, ma non capita spesso. Ecco un caso in cui la presentazione di un libro ha più che mantenuto, a mio parere, le promesse: il romanzo è “Brava ragazza, cattiva ragazza” e l’autore è Michael Robotham.
Originario di Casino (Australia), Robotham è uno scrittore affermato dal 2004, quando ha dato alle stampe il suo primo romanzo, “L’indiziato”, un thriller psicologico che ha riscosso subito un grande successo internazionale. Precedentemente è stato giornalista e ghostwriter. Con questo suo lavoro del 2019 ha vinto il Gold Dagger Award della Crime Writers’ Association ed è stato finalista all’Edgar Award. “Brava ragazza, cattiva ragazza” è il primo capitolo di una serie, anche se lo si può a pieno titolo considerare un’opera autoconclusiva, non ci sono strani ganci alla fine del romanzo, la storia inizia e finisce pienamente e anche se alcuni aspetti della vicenda, che non svelo, possono considerarsi aperti, il finale è un finale nel senso ampio del termine.
A fine 2022 è uscito in Italia il seguito, sempre per la collana Darkside di Fazi, intitolato “La ragazza che viene dal buio” e l’ho già ordinato in libreria 😉
Cyrus Haven è uno psicologo forense che collabora con la polizia, come profiler e assistente negli interrogatori. Gli viene chiesto da un conoscente di esprimersi riguardo allo stato di salute mentale di Evie Cormac, che vive in un orfanatrofio da sei anni, dopo essere stata trovata nascosta in una casa abbandonata, dove è stato commesso un terribile delitto, a cui lei ha assistito. Ora, con l’approssimarsi della maggiore età, il tribunale deve decidere se lei sia in grado di vivere da sola e in modo indipendente. La ragazza, di cui non sa con certezza l’identità, non è affatto un caso semplice, è sveglissima, non si lascia abbindolare da provocazioni e giochi mentali e sembra essere in grado di capire con uno sguardo se qualcuno mente.
Nel frattempo Cyrus viene chiamato a occuparsi di un caso di omicidio che ha scosso la comunità: è stata uccisa Jodie Sheehan, una giovane campionessa quindicenne di pattinaggio sul ghiaccio, che sembrava destinata a un grande futuro sportivo. Considerata come la classica ragazza della porta accanto, Jodie appariva bella, popolare e invidiata, ma durante le indagini emergeranno verità sconvolgenti e inaspettate. Cyrus si trova a gestire queste due situazioni, tormentato nell’intimo, anche se non lo lascia trasparire, da oscuri fantasmi del suo passato. Infatti anche lui ha avuto una grande tragedia nella sua vita. Da una parte Evie deve essere salvata e con lei non ci sono scappatoie, bisogna sempre dire la verità e dall’altra l’anima di Jodie esige una giustizia, che vada oltre un semplice capro espiatorio a cui affibbiare il delitto.
Riguardo alla trama non svelerei molto altro. Sembrerà banale dire che il romanzo è scritto benissimo, ma lo dico, anche perché è assolutamente vero. Capita a volte di voler solo arrivare in fondo a una storia per sciogliere il mistero o scoprire il colpevole, magari turandosi il naso e ingoiando certe “criticità” (incongruenze, buchi narrativi, scrittura tutt’altro che fluida, etc.), solo per la curiosità e per l’esigenza di scoprire come va a finire.
Robotham invece riesce a imbastire una vicenda coerente e fluida scrivendo con uno stile a tratti cinematografico, ma in parte anche parecchio introspettivo. Una scrittura molto immersiva, la chiamerebbero alcuni formatori. Il punto di vista principale è quello di Cyrus, ma in alcune scene entriamo pure nella mente di Evie e vediamo il mondo con i suoi occhi e questo passaggio non risulta per nulla forzato, anzi è naturale e quasi necessario.
In attesa di poter leggere il seguito non posso che consigliare questa lettura agli amanti del genere, ma non solo. Ne resterete piacevolmente stupefatti.
La trasposizione di un romanzo non facile, che indaga sulla complessità della vita quotidiana contemporanea, in un film a tratti piacevole, a tratti non del tutto in linea con una visione postmoderna, ma di quasi quarant’anni fa.
Che strana specie animale che è la razza umana. Domina il mondo, o ritiene di esserne in grado, e alimenta continui e sempre più contorti dubbi riguardo alla propria esistenza. Crea schemi, concettualizza rapporti, sentimenti e dinamiche sociali e poi si trova completamente disarmata di fronte all’inesorabile fine. E allora non può che provare paura.
Mi è piaciuto “Rumore bianco”, tratto dall’omonimo romanzo di Don De Lillo, anche se non è stata una visione semplice, come complessa mi è parsa la lettura, che avevo terminato poco prima di vedere il film. Complessa nel senso di densa, stratificata, piena di significati non banali.
Intanto è necessario notare che il libro è uscito nel 1985 e da allora molte cose sono cambiate nel sentire comune, per cui mi immagino che riportare una trama del genere sullo schermo non deve essere stato facile, ma l’impresa mi sembra riuscita. La trasposizione è fedele, qualche critico dice perfino troppo, come se il regista avesse avuto paura di sbagliare.
“Rumore bianco” è l’ottavo romanzo di De Lillo, un autore, per quanto lo conosco io (ho letto altri due suoi romanzi e ho visto “Cosmopolis”, film per la regia di Cronenberg, tratto da un altro suo libro), che guarda molto avanti. Si scomoda il termine postmoderno per descrivere le sue tematiche e per il suo approccio alla realtà. Il libro, che vinse il National Book Award per la Fiction, parla della società del XX secolo (immersa nel consumismo e mitragliata dai mass media), in cui le famiglie allargate e composite diventano nuclei nuovi, i rapporti diventano più liquidi. L’ossessione per la salute e la tranquillità (in qualsiasi modo la si intenda) si alleano con la ricerca di qualche affermazione personale (l’intellettualismo ostentato da molti colleghi del protagonista), nel tentativo di combattere l’oscuro nemico invincibile che aleggia per tutto l’arco delle vicende narrate: l’idea e la paura della morte. L’inesorabile “viaggio verso la non esistenza” come lo definirà uno dei personaggi. Tutte le pressioni che la società riversa sui singoli individui, privandoli di propri spazi privati, vanno a costituire quel “rumore bianco” che si fa sempre più fatica a percepire. Un rumore bianco che, pur essendo in parte anestetizzante, non sempre rilassa e, anzi, spesso è motivo di inquietudine.
Jack Gladney è un professore universitario specializzatosi in studi sulla figura di Adolf Hitler. Sposato con Babette, sono entrambi al quarto matrimonio e vivono con quattro figli, uno loro e gli altri avuti nelle unioni precedenti. Le complesse dinamiche familiari si alternano a momenti in cui vengono narrate vicende all’interno del campus, dove Jack, che ha una certa rispettabilità, dovrà tenere una conferenza con studiosi provenienti dalla Germania e quindi frequenta di nascosto un corso di tedesco. Il romanzo si apre con la scena dell’arrivo degli studenti accompagnati dai genitori su grandi auto station wagon, subito si mette in evidenza il ruolo quasi da luogo sacro del supermercato e l’invadenza dei media non tarda a manifestarsi. La fuga di una sostanza chimica tossica andrà a turbare la normale routine quotidiana, la famiglia sarà costretta ad allontanarsi per un po’ da casa (ma per Jack ci sarà uno strascico, tanto che si convincerà di essere ormai “progettato per morire”). Quando tutto torna apparentemente alla normalità, Jack, oltre a doversi preoccupare dei continui vuoti di memoria di Beba, come affettuosamente chiamano Babette, vuole scoprire a che cosa serve il misterioso medicinale che lei assume di nascosto, il famigerato Dylar, che non è stato prescritto dal suo medico curante e che nessun farmacista sembra conoscere.
Il film ricalca quasi del tutto il materiale del romanzo, con qualche leggera variazione, qualche omissione e alcune licenze poetiche. Non compaiono parenti o ex, come nel libro, la risoluzione finale è leggermente diversa, Babette nel libro non è presente nella scena del motel col misterioso Mr. Grey, ma forse la si è intesa in questo modo per renderla più digeribile, come a dire che “la vita continua, nonostante tutto”. L’uso grottesco dell’arma da fuoco è davvero spiazzante. Se non altro il discorso sulla fede delle suore tedesche nell’ambulatorio del pronto soccorso è rimasto tale e quale e mi pare un bel gioiellino.
All’inizio accennavo al fatto di quante cose siano cambiate dalla metà degli anni ottanta e che forse non era abbastanza raccontare, prelevare gli episodi narrati dal testo e cercare di trasporli sullo schermo. Oltre ai meri fatti c’è la questione della visione che De Lillo mette in campo, che era sensata e ficcante allora e che oggi, pur mantenendo la sua acutezza, a video potrebbe rischiare di sembrare un po’ spuntata. Che cosa è cambiato da allora? Beh, parlando di mass media, non c’erano i social, tutte le interazioni sono intese come fisiche o per lo più al telefono. Parecchie scene si svolgono all’interno del supermercato (anche una sorta di balletto finale), che assurge a ruolo di posto quasi di culto, dove le persone compiono il rito dell’acquisto consumistico, perno della società del benessere. Se anche esistevano vendite per corrispondenza, non c’era di certo la rete che esiste oggi, tra Amazon, delivery e compagnia bella. Anche per quello che riguarda la satira sull’universo famiglia, nel 1984 non c’erano ancora i “Simpson” (o sitcom similari, ma questo mi sembra l’esempio più forte), fenomeno di massa che ha ridisegnato molti archetipi del nostro immaginario in materia, ma questa è una mia osservazione personale. Non voglio dire che il messaggio sia meno significativo o azzeccato, ma forse agli occhi dello spettatore del 2023 non è così dirompente come poteva esserlo nel 1984.
In questo aspetto, secondo me, sta la maggiore difficoltà della resa del film, oltre ad un uso dell’ironia e del sarcasmo che a volte risultano poco recepibili, pur essendone la pellicola totalmente permeata. Tutto sommato però, a mio parere, è un film da vedere, indipendentemente dall’aver letto il libro o meno, anche se il romanzo riesce meglio a narrare il senso del tempo in cui è immerso.
Chiarisco: non è la solita banalità per cui, per partito preso, un libro sia per forza meglio del film. Semplicemente il film è sì piacevole, ma un po’ in ritardo su quanto viene raccontato, al di là degli eventi, per una questione di “visione”, come già sottolineavo.
Presentato a Venezia nel 2022, ha nel suo cast Adam Driver (Star Wars, BlackkKlansman) nella parte di Jack, Greta Gerwing come Beba e Don Cheadle nel ruolo del professor Siskind, appassionato di Elvis.
Prodotto tra gli altri da Netflix, è presente sulla piattaforma dal 30 dicembre scorso.
L’acclamata serie di James Gunn che parla di questo controverso super eroe è sbarcata in Italia. L’ho vista ed ecco che cosa ne penso.
Da quando James Gunn ha assunto un ruolo decisionale all’interno dell’universo cinematografico della DC, molti sono stati i rumors riguardo ai nuovi sviluppi e/o ai reboot di vari personaggi. Ci sarà probabilmente un nuovo Superman che non avrà il volto di Henry Cavill (sigh!), il giovane Batman dell’accoppiata vincente Reeves-Pattinson avrà di sicuro un seguito, ma non si esclude che ci sarà anche un cavaliere oscuro più “anziano”, che già dovremmo vedere nel film dedicato Flash, in uscita prevista a giugno di quest’anno, (Michael Keaton, ma forse anche Ben Affleck). Meno chiari sembrano i destini di Wonder Woman (si farà il terzo film? e con quale attrice?) e di Aquaman (dovrebbe uscire Aquaman 2, ma a questo punto farebbe parte del vecchio universo), considerato anche il fatto che Jason Momoa potrebbe assumere il nuovo ruolo di Lobo (Hype!).
Fatte queste debite considerazioni non si può negare che Gunn sia tra i migliori sceneggiatori e registi di cinecomic, se non il migliore in assoluto, attualmente. Il che non è qualcosa di banale, tenendo conto di alcuni fattori. Come va scritto un cinecomic convincente oggi? A chi si deve rivolgere?
Il pubblico è ormai sgamatissimo e abituato a qualsiasi cosa. È una mera illusione sperare di stupire con effetti speciali (come recitava un vecchio spot pubblicitario) o con trame banali in cui il bene sconfigge il male, tanto per rimanere nel più facile dei cliché. Bisognerebbe dosare correttamente ironia e tragicità, creare personaggi interessanti, pieni di sfaccettature, di motivazioni, di conflitti interiori e attorniati da comprimari credibili, in un ambiente che non sembri un plastico o un presepio.
Ho detto poco, eh?
Si tratta in parole povere di saper giocare con la sospensione dell’incredulità dello spettatore, raccontargli il fantastico e l’incredibile, ma facendoglielo “digerire” come verosimile. Semplificando molto la questione, parecchi film Marvel spesso peccano di troppa leggerezza, esagerando con battute comiche fuori luogo in momenti drammatici e amenità varie; al contrario alcune pellicole targate DC sono state tacciate di essere troppo cupe e seriose. Gunn, che ha lavorato per entrambe le case di produzione, ha dimostrato a più riprese di saper amalgamare in modo convincente gli elementi necessari per dar vita a prodotti avvincenti, che possano venire agevolmente fruiti anche in più chiavi e a più livelli di lettura (e così mi smarco anche dalla questione target, che di per sé meriterebbe molti approfondimenti).
La serie de I Guardiani della Galassia (quest’anno è prevista l’uscita del terzo film) ne è una prova lampante (Marvel), come lo è stato The Suicide Squad – Missione Suicida (DC).
Quest’ultimo, pur essendo stato un flop al botteghino, ha riscosso molte reazioni positive dalla critica e da un certo pubblico (non quello delle sale, evidentemente). Una banda di anti eroi o super eroi minori, che hanno pendenze con lo Stato, viene assoldata da Amanda Waller (personaggio ricorrente nei film DC, interpretata da Viola Davis), agente governativa esperta in operazioni segretissime, per una missione potenzialmente suicida, appunto, con la promessa di ottenere qualcosa in cambio, riabilitazione o altro. Ne fanno parte Bloodsport, un arsenale da guerra umano, interpretato da Idris Elba, Harley Quinn, che per la terza volta (dopo i poco riusciti Suicide Squad e Birds of Prey) ha il volto di Margot Robbie, King Shark, un gigantesco squalo antropomorfo, che sa a malapena parlare e che nella versione originale è doppiato da Sylvestrer Stallone e, tra gli altri, da Christopher Smith, nome di battaglia Peacemaker (interpretato da John Cena), uno psicopatico un po’ razzista e misogino, con un costume dalla maglia rosso acceso, pantaloni bianchi ed elmetto dalle strabilianti funzioni, abilissimo con le armi e abilissimo anche a dire la battuta sbagliata nel momento sbagliatissimo. Unico suo scopo: la pace. Genericamente, tipo che se qualcuno del livello della Waller gli ordina di fare qualcosa “per la pace”, lui lo fa, anche se comporta qualsiasi atto criminoso, omicidio incluso. Nel film, Peacemaker non ne esce benissimo, tradisce in qualche modo il gruppo e si macchia di un omicidio, ma poi ne paga le conseguenze.
Nel 2022 James Gunn decide di dedicare a lui la serie spin-off del film, The Peacemaker, uscita negli Usa a gennaio e approdata da noi a fine dicembre (su Tim Vision). Un successo, ma come è possibile, dato che il protagonista ha molti tratti negativi?
La serie comincia con Smith in ospedale, in convalescenza dopo sei mesi dagli eventi narrati nel film. Nessuno lo ha cercato, è una faccenda da supereroi, dovrei essere in carcere, dice all’uomo delle pulizie. Questi gli chiede che supereroe sarebbe e, una volta sentito il suo nome, afferma di non conoscerlo affatto. Peacemaker raccatta la sua divisa sgualcita e bruciacchiata e sgattaiola via dall’ospedale…in taxi. Arrivato a casa di suo padre, non ha i soldi per pagare la corsa, in tasca ha solo banconote di qualche sconosciuto paese asiatico. Il taxista gli chiede di avere il suo elmetto e lui glielo dà. E queste sono solo le prime scene del primo episodio. Come non amarlo già?
Ma non è solo l’aspetto comico o cringe a rendere irresistibile la narrazione. In mezzo a tanti eventi ridicoli e un po’ assurdi (un esempio per tutti, Peacemaker che, dopo essere stato assoldato per l’ennesima missione segretissima, si presenta alla prima riunione del gruppo, nel drugstore della cittadina dove tutti lo conoscono, con la divisa da supereroe, elmetto nuovo di pacca, a bordo di un’auto color…bandiera USA e accompagnato da un’aquila, la sua mascotte e miglior amica e gli altri che lo vedono arrivare non possono che dargli del coglione), c’è anche spazio per uno sviluppo del personaggio, indagando la sua personalità e il suo background culturale. Appena viene introdotto il personaggio del padre, metà del lavoro è fatto.
Pur con notevoli differenze, che ora spiegherò, questa serie ha molti tratti in comune con un altro lavoro di Gunn, il film Super – Attento crimine!!!. Film del 2010 con protagonisti Rainn Wilson (il Dwight di The Office Us), Elliot Page (allora ancora Ellen), Liv Tyler e Kevin Bacon (cattivo molto convincente). Frank Darbo è un uomo normale, che, dopo una serie di eventi sfavorevoli, si autoconvince di aver ricevuto una chiamata divina per diventare un supereroe, paladino della lotta contro il crimine. Come Smith, anche Darbo ha una visione un po’ troppo rigida e quadrata della realtà (rompe la testa con un una chiave inglese a un tizio che salta la fila, perché “le file si rispettano!”, per dire) ed è convinto di agire in nome di un bene superiore, anche se inanella una serie di errori di cui non sembra in grado di rendersi conto. La sostanziale differenza tra i due personaggi è che Saetta Purpurea, il nome da supereroe di Darbo, è un completo sprovveduto, non sa combattere e usa le armi un po’ come viene, mentre Peacemaker è un assoluto esperto in ogni forma di combattimento, con armi o senza, tanto che lo stesso Cena lo definì “una sorta di Capitan America, ma più stronzo.” Entrambi sono abbastanza infantili, entrambi dovranno in qualche modo crescere.
Una simpatica analogia riguarda i titoli di testa del film in questione e della serie. In entrambi i casi tutti i personaggi si trovano impegnati in un balletto, in Peacemaker sono gli attori stessi, in Super – Attento crimine!!! è la loro versione a cartoni animati. Nella posizione finale (finto fermo immagine) i ballerini ansimano per la fatica.
Allora, ironia, humour nero, violenza, cinismo e sfiducia nel governo centrale. Siamo quindi dalle parti di The Boys (serie Amazon, per chi non la conoscesse, tratta da un fumetto che parodia in modo spietato i luoghi comuni sui supereroi)? Sì e no, in realtà. Perché, anche se il linguaggio è abbastanza sboccato e non mancano situazioni violente e piccanti, siamo comunque nell’universo DC e quando vengono nominati eroi di grande calibro, come Superman o Batman, si percepisce un alone di rispetto e una sensazione “protezione” che proviene da quei nomi… quasi sempre, infatti lo stesso Peacemaker alimenta voci infondate sulle cose strane che Aquaman farebbe con i pesci.
Il cast: Peacemaker è John Cena, ex wrestler come The Rock e Bautista, ma che, dopo qualche tentativo nell’action movie poco riuscito, ha virato verso il comico (come in Un disastro di ragazza), trovando la sua particolare via per il successo. Suo padre è interpretato da Robert Patrick (Terminator 2, X Files), e nella squadra troviamo Danielle Brooks (Orange is the new Black), Freddie Stroma, Jennifer Holland e Chukwudi Iwuji.
La serie è interamente scritta da Gunn, che dirige anche cinque degli otto episodi. Su Tim Vision, per ora, mentre il film The Suicide Squad – Missione suicida è su diverse piattaforme, compreso gratuitamente nell’abbonamento Sky Now.
Il primo libro di Raphael Bob-Waksberg è un collage di racconti surreali e iperrealistici, spunti, visioni e intuizioni davvero singolari.
Raphael Bob-Waksberg è un comico e sceneggiatore statunitense, ebreo, classe 1984, ormai arcinoto anche al grande pubblico per aver contribuito a creare serie del calibro di Bojak Horseman (per Netflix) e Undone (per Amazon Prime). Nel 2019 ha raccolto alcuni propri scritti, anche non recentissimi, e ha dato alle stampe questo “Qualcuno che ti ami in tutta la tua gloria devastata“. Il libro due anni dopo è arrivato anche in Italia, edito da Einaudi.
Nel suo lucido cinismo è possibile scorgere un genio spietato, intelligente e caustico che non può che rimandare a un Woody Allen d’annata, ovviamente con i dovuti upgrade linguistici e tematici. E il bello è che il tema portante dovrebbe essere qualcosa di romantico, trovarsi e ritrovarsi dopo una perdita, dopo esser stati feriti. Ma appunto l’autore non può evitare di condire il tutto di ironia e sarcasmo.
I racconti (anche se alcuni sarebbe difficile definirli tali, seguendo una catalogazione ordinaria), 18 in tutto, si presentano nelle forme più disparate: possono partire da una semplice etichetta, svilupparsi nella ripetizione di situazioni di vita vissuta o basarsi semplicemente su dialoghi, Non c’è una regola fissa e non c’è nemmeno un’esigenza di strutturare o sviluppare situazioni verso un climax e una soluzione. Esistono anche forme di racconto più tradizionali costruite in quel modo, ma l’elemento essenziale è la parola, la voce dell’autore che direttamente o di taglio ci riversa addosso episodi talmente paradossali da sembrare più che realistici (si pensi alle usanze per il matrimonio ne “L’occasione più lieta e propizia”), ma anche semplici flash, idee, spunti e scampoli di vita, in grado di illuminare la mente del lettore anche con piccoli dettagli, senza il bisogno di eccessive informazioni.
Oltre ai promessi sposi di cui accennavo sopra, ci sono due possibili amanti nella stessa carrozza del metrò che saltano tutte le fermate aspettando che uno dei due si decida a fare il primo passo, un inventore che viaggia attraverso le dimensioni cercando di fare solo scelte giuste, due fratelli che cercano di capire che cosa non vada nel proprio rapporto, una storia raccontata dal punto di vista di un cane e tante altre amenità.
Per stuzzicare ulteriormente la lettura di questo libro, del quale invito caldamente la lettura, soprattutto a chi voglia decisamente fuggire per un po’ dalla banalità dilagante, copio quanto compare nella seconda di copertina (niente spoiler, sono cose che trovate anche in rete):
“Questo libro contiene: 1. Un uomo e una donna che saltano tutte le fermate della metropolitana della loro vita in attesa dell’occasione giusta. Due sposi costretti dai parenti a sacrificare caproni per assicurarsi la felicità futura. Uno scienziato che fa avanti e indietro da un universo parallelo in cui ha fatto solo le scelte giuste. 2. E altri quindici racconti pieni di umorismo, romanticismo, stravagante surrealismo e sincerità. 3. Una scatenata comicità che nasconde una verità sgradevole che fingiamo di non vedere che a sua volta cela un’amara ironia che svela il dolore di cui siamo composti che prepara il sorriso dell’accettazione bagnato dalle lacrime per l’essere vivi. 4. Elenchi puntati. 5. Chiunque abbia visto qualche puntata di BoJack Horseman sa che il talento di Raphael Bob-Waksberg si sviluppa in una cifra unica, personalissima: quella in cui l’ironia più amara diventa un bisturi affilatissimo che taglia i nodi delle relazioni umane. Le nostre fragilità, il desiderio di essere amati, di essere riconosciuti dall’altro, la nostra ricerca di qualcosa che illumini le ombre che ci portiamo dentro. 6. Leggendo questi racconti preparatevi a essere devastati e ricostruiti pezzo a pezzo.”
In fondo, chi ama la lettura che cosa potrebbe chiedere di meglio, se non venire smontato e ricostruito?
Antesignano di 1984 di Orwell e del Mondo nuovo di Huxley, Noi racconta di un’umanità ipermeccanizzata e socialmente ipercontrollata.
Un romanzo dalla storia travagliata, come quella del suo autore, il russo Evgenij Zamjatin, costretto a espatriare per stabilirsi in Francia. Concepito nei primi anni 20 del secolo scorso, il romanzo venne subito censurato, uscì in inglese nel 1924 e in russo solo nel 1952, ma a New York e si dovette attendere il 1988, perché potesse essere edito anche in URSS. Noi è ambientato nel terzo millennio e narra di una società i cui abitanti vivono controllati da un regime totalitario che regolamenta ogni parte della loro vita. Tutto è predefinito e automatizzato, nulla può venire nascosto, persino i palazzi sono fatti completamente di vetro (soltanto durante i rapporti sessuali è possibile abbassare le tende).
La storia si dipana attraverso le pagine di un diario, gli Appunti del protagonista, D-503 (ogni persona conserva un’identità alfanumerica, i nomi sono sparirti), un ingegnere che sta lavorando all’ambizioso progetto di costruzione di una nave spaziale, il famigerato Integrale.
A capo di questo Stato Unico abbiamo un autocrate che si fa chiamare “Benefattore” (a cui il Grande Fratello orwelliano deve più di un tratto caratteristico) aiutato nel costante lavoro di controllo dai “Custodi”, veri e propri tutori dell’ordine. Il razionalissimo D-503, che intrattiene una relazione “regolare” con la tranquilla O-90, si innamora di un’altra donna dal fascino enigmatico, I-330. Lei riuscirà a turbarlo e soggiogarlo fino al punto non solo di fargli provare gelosia e possessività, sentimenti “anticollettivi” e quindi del tutto fuori legge, ma addirittura lo convincerà a unirsi a un movimento rivoluzionario finalizzato a ribaltare il regime.
Al di fuori dello Stato Unico, descritto come un’immensa metropoli, oltre la Muraglia Verde, vivono persone molto diverse dai cittadini regolari, i cosiddetti “Mefi”. I-330 condurrà D-503 tra di loro con lo scopo di impossessarsi dell’Integrale per usarlo contro lo Stato Unico. Il piano viene scoperto, ma la rivolta è ormai partita. Non svelo il finale.
Mentre Noi stenta a raggiungere un dignitoso sbocco editoriale, nonostante la critica ne parli bene, ma ben altre paure ne impediscano la diffusione, almeno in patria, Aldous Huxley da alle stampe nel 1932 Il mondo nuovo e George Orwell nel 1949 pubblica il celeberrimo 1984. Sono romanzi dalle tematiche molto accostabili a Noi, entrambi gli scrittori conoscono Zamjatin, ma se Huxley dice di non aver mai letto Noi (nonostante appunto similarità dei temi affrontati), Orwell ammette di averlo recuperato nella versione francese del 1929, ne auspica una ripubblicazione in lingua inglese (non mancando di citarlo riguardo alla composizione del suo romanzo più noto), ma lo bolla ingenerosamente come “non un romanzo di prim’ordine”. L’impietoso giudizio poteva anche dipendere dal fatto che la traduzione che girava in quegli anni non fosse accuratissima, ma, al di là di questo, leggendo Noi non si possono non ravvisare consonanze con 1984, anzi sarebbe meglio dire il contrario, dato Zamjatin scrisse la sua opera trent’anni prima di Orwell.
Descrivendo un ordinamento sociale che intende sopprimere ogni forma di individualità a vantaggio di una massa uniformemente plasmata ed eterodiretta e raccontando, anticipando i tempi, il destino niente affatto roseo di una tale visione, il romanzo venne interpretato come un palese manifesto anticomunista. Dopo il 1952, con l’edizione russa edita a New York, le cose cambiarono poco, Noi raggiunse un pubblico abbastanza ristretto, anche se quell’edizione diede il via a una serie di nuove traduzioni (la prima italiana è del 1955).
In realtà il respiro di questo romanzo, nato sì in un contesto sociale e politico preciso, era ben più ampio. Non si tratta di un semplice pamphlet politico, come ebbe a spiegare in più riprese l’autore stesso, Noi rappresentava (e rappresenta) una “protesta contro il vicolo cieco in cui si sta andando a cacciare la civiltà europeo-americana, che livella, meccanicizza, macchinifica l’uomo.” Alcuni critici americani hanno tratto dalla lettura del romanzo un duro attacco al fordismo.
Oggi viviamo in un’epoca in cui ci si sente del tutto liberi, ma mentre nel mondo esistono luoghi dove dittature e guerre sono tutt’altro che brutti ricordi (ho detto Russia? L’ho fortemente pensato, sarò telepatico?), Noi torna di forte attualità se lo si legge in un’ottica in cui le convenzioni, le distanze, il bisogno di apparire in un certo modo sui social e tutto quanto, in modo nascosto e strisciante, lede la nostra libertà di agire e pensare fuori dagli schemi (e fuori dagli schermi), sono i nostri nuovi tiranni, che spesso e volentieri siamo noi stessi a imporre sulle nostre vite.
Nel 1932 Zamjatin pensò a una trasposizione cinematografica di Noi, ne scrisse la sinossi di sceneggiatura, ma il progetto non vide mai la luce. Anche in questo l’opera di Orwell ha avuto maggior fortuna, almeno fino ad ora. Il regista Hamlet Dulyan sta realizzando un lungometraggio tratto dal romanzo. L’uscita era prevista per il 2021, ora si parla di fine 2022, ma la situazione internazionale potrebbe far slittare l’uscita ulteriormente.
Qui sotto il trailer:
Una nota di colore pop per concludere. Il brano del 2006 Integral dei Pet Shop Boys, che, non a caso, rappresenta una forma di protesta alla proposta di adottare, nel Regno Unito, le “ID card” (un documento in cui vengono riportati tutti i dati di un soggetto), è un evidente omaggio al romanzo di Zamjatin.
La miniserie di Netflix, ispirata da una storia vera, è un horror godibile ben scritto e con un cast di assoluto livello.
Dopo Dahmer, Ryan Murphy realizza un’altra serie che sta riscuotendo molto successo. Si intitola The Watcher ed è suddivisa in sette episodi. La vicenda si ispira a fatti realmente accaduti e ne sviluppa le conseguenze in chiave thrilling e soprattutto horror. I coniugi Brannock, stanchi della vita in città, decidono di comprarsi “la casa dei sogni” in una periferia (apparentemente) tranquilla. Dopo l’iniziale euforia, cominciano però a sorgere dei problemi.
Il vicinato non appare molto socievole, c’è subito un battibecco riguardo a siepi e confini e inquietanti personaggi rivendicano il diritto di poter accedere alla casa per utilizzarne il montavivande. Di seguito arrivano lettere anonime dal tono sempre più minaccioso. E, mentre la polizia sembra poco interessata a scoprire chi minaccia l’incolumità della famiglia, l’installazione di un sistema di sicurezza non appare una soluzione decisiva, e l’agente immobiliare sembra voler spingere alla vendita della casa (il che vorrebbe dire perdere un sacco di soldi), la coppia, tramite un’investigatrice privata, scopre una serie di fatti sanguinosi accaduti nella dimora anni prima. Episodi che l’agenzia immobiliare si è ben guardata dal raccontare, prima dell’accordo di vendita.
A tutto ciò si unisca la storia di un professore da sempre “innamorato” delle case, i problemi sul lavoro di Dean Brannock, che dopo il grande investimento nella nuova casa sperava di diventare socio del suo studio, ma la strada gli sembra preclusa, i difficili rapporti con i figli adolescenti, specialmente con Ellie e l’idea che esistano passaggi segreti dai quali malintenzionati possano penetrare nella dimora senza venire inquadrati dalle telecamere di sicurezza.
Questi sono gli elementi della storia, abilmente amalgamati che portano a diversi capovolgimenti di fronte e colpi di scena anche imprevedibili. Murphy ha già dimostrato in American Horror Story non solo di conoscere, saper maneggiare e rinnovare la materia e il genere orrorifico, ma anche di essere abilissimo a “giocare” con i personaggi, nessuno è mai completamente innocente e tutti possono essere sospettati, anche chi sembra una semplice vittima.
In ciò è anche agevolato da un cast veramente all’altezza, anche in momenti in cui si rischiava di cadere dal grottesco al comico, come in alcune scene del penultimo episodio, ma non dico altro. A interpretare Dean e Nora Brannock troviamo Bobby Cannavale (Nine Perfect Strangers, Ant-Man) e Naomi Watts (King Kong, The Ring, La promessa dell’assassino). I vicini di casa sono una Mia Farrow veramente da paura e Margo Martindale (personaggio ricorrente nel ruolo di sé stessa, ma pazza e violenta in Bojack Horseman), l’agente immobiliare è Jennifer Coolidge (indimenticata milf di American Pie). Poi c’è il poliziotto “svogliato” interpretato da Christopher McDonald (Requiem for a dream) e il professore amante delle case che ha il volto di Michael Nouri (qualcuno se lo ricorda in Flashdance ?).
Serie consigliatissima, visibile sulla piattaforma Netflix.
Russian Doll & Undone:due serie molto diverse che però hanno più di una caratteristica che le accomuna.
Da qualche mese sono disponibili, su due differenti piattaforme, due serie molto diverse tra loro per quanto riguarda la narrazione, ma che hanno una serie di caratteristiche che in qualche modo le rendono accostabili. Sono entrambe alla seconda stagione e contano entrambe meno di dieci episodi a stagione, ma questi sarebbero futili dettagli. La vera comunanza è il fatto che le protagoniste delle due serie sono entrambe donne (e di un certo carattere, finalmente personaggi femminili a tutto tondo e non solo “belle statuine”), che hanno particolari doti che permettono loro di viaggiare nel tempo (e nello spazio), apparendo ai più come persone leggermente disturbate, lasciando il velato dubbio che quanto succede accada solo nella loro mente, ma questo non è uno spoiler. Altra caratteristica comune, che vorrei rilevare prima di scendere nello specifico, è che, dopo una prima stagione con archi narrativi difficilmente paragonabili, nella seconda, pur con le dovute differenze, anche la narrazione presenta tematiche confrontabili: l’indagine sul passato della propria famiglia è di sicuro la più evidente.
Russian Doll
Nella prima stagione di Russian Doll, la protagonista Nadia si trova intrappolata in un loop temporale che parte dalla festa per il suo trentaseiesimo compleanno e finisce immancabilmente con una morte violenta, sempre diversa. Poi tutto riparte da capo (un po’ come il famoso “Giorno della marmotta“, ma con esito tragico). Cercando di restare viva, la giovane dovrà capire come uscire da questo intreccio trovando un’altra persona che sta vivendo il suo stesso dramma. Non dico altro per non rivelare troppo, anche se questa stagione è del 2019.
Nella seconda stagione, del 2022, c’è un salto temporale, Nadia sta per compiere i 40 e stavolta sarà un viaggio in metropolitana a scatenare l’imprevisto. Verrà sbalzata indietro di quarant’anni e si troverà inspiegabilmente negli anni 80. Il viaggio a ritroso è avvenuto in un modo che ricorda un po’ un telefilm anni 80-90 che si intitolava “Quantum Leap“, Nadia conserva la propria coscienza, ma si trova a vivere nel corpo di un’altra persona (sua madre, incinta di lei, tra l’altro). Dopo un primo viaggio la donna comincerà a chiedersi se quello che sapeva, e che le hanno sempre raccontato, su sua madre (e sulla sua famiglia in generale) sia vero o se esistano segreti che qualcuno le ha nascosto. Sua madre, tanto per cominciare, era davvero pazza? Per arrivare al fondo della questione, e di altre in realtà, vengono sviluppati differenti archi narrativi (molto interessante quello che riguarda il solito personaggio, Alan, che anche stavolta, come nella precedente stagione, condivide questa nuova sventura), dovrà ripetere più volte l’esperienza, viaggiando anche attraverso altre epoche storiche, fino a che tutto l’insieme di esperienze un po’ folli che la coinvolgono comincerà ad avere senso. La seconda stagione alza l’asticella rispetto alla prima, si presenta molto più complessa, ma risolve, a suo modo, le questioni che pone. L’elemento che spiazza è il fatto che nulla venga preso troppo sul serio, Nadia è una tosta, una tizia coriacea che nelle stranezze ci sguazza e ci si diverte, smontando con ironia e sarcasmo anche le situazioni più assurde, drammatiche e pesanti, quelle che potrebbero rendere una serie un po’ spocchiosa, perché crede un po’ troppo in sé stessa (avete presente Dark? non la nominerò più).
Russian Doll, creata da Leslye Headland, Amy Poehler e Natasha Lyonne, che interpreta Nadia (e che fu nel cast di “Orange is the New Black“), è disponibile su Netflix.
Undone
Nella prima stagione di Undone, del 2019, Alma, dopo un incidente automobilistico in cui ha rischiato la vita, riesce a riconnettersi con la coscienza di suo padre, morto quando lei era bambina. Lui l’aiuterà a sviluppare le proprie capacità per spostarsi nel tempo allo scopo di scoprire come è realmente morto. La ragazza si convince di poter cambiare la storia e fare in modo di salvarlo.
Nella seconda stagione, uscita nel 2022, Alma si trova a vivere un’esistenza completamente differente, ma non tutti i problemi sono risolti. Nella sua mente i ricordi della precedente vita non si sono ancora assopiti e nemmeno la voglia di saltellare nel tempo lo è. Inoltre, dopo aver scoperto che anche sua sorella Becca è in grado di viaggiare come fa lei, Alma cerca di convincerla a indagare nella vita passata della famiglia, ritenendo che la loro madre nasconda un segreto che le provoca una grande sofferenza. Becca in un primo momento è restia a lasciarsi convincere, anche perché ha altri pensieri per la mente (sta per sposarsi), ma alla fine accetta. Così, nonostante suo padre la ammonisca sui rischi che le loro azioni potrebbero provocare sulla nuova linea temporale, Alma conduce Becca in una serie di salti temporali, fino a scoprire la verità, ma a quale costo?
Undone è una serie Prime, con la bravissima Rosa Salazar nel ruolo di Alma e Bob OdenKirk (Breaking Bad – Better Call Saul) nella parte di suo padre Jacob. E’ realizzata in rotoscope, quella tecnica attraverso la quale si ridisegna sopra il girato in modo da ottenere una serie animata (come per il film A Scanner Darkly, tratto da Philip Dick, per la regia di Richard Linklater, ma immagino che dal 2006 la tecnologia si sia parecchio evoluta) ed è creata da Raphael Bob-Waksberg e Kate Purdy, ossia le menti dietro a quel capolavoro che è stato (è e sempre sarà) Bojack Horseman. Questo per dire che la scrittura, i dialoghi, le situazioni, lo studio dei personaggi sono a livelli altissimi. Come nel caso di Russian Doll, non ci si appiattisce sull’evento fantastico dimenticando tutto il resto, ma è appunto l’insolito ad inserirsi armonicamente, se così si può dire, in un contesto verosimile, credibile e abilmente dettagliato.
Se quindi vi piace la fantascienza, del tipo “succedono cose strane, ma va bene anche se non mi spieghi per filo e per segno scientificamente il perché di quello che accade”, se amate il fantastico, il weird, ma soprattutto le serie scritte bene, con personaggi che sembrano persone a tutto tondo, con pregi, difetti, dubbi e paure e non delle semplici figurine in balìa degli eventi, bene, queste due serie fanno per voi.
Un romanzo di fantascienzagodibile ancora oggi, da cui è stato tratto un film che, nonostante qualche difetto e qualche ingenuità, è invecchiato bene e continua a offrire scenari inquietanti.
Nel 1966 Harry Harrison dava alle stampe il romanzo “Largo! Largo!” (“Make Room! Make Room!”) dal quale sarebbe poi stato tratto nel 1973 il film “2022: i sopravvissuti” (“Soylent Green”) che ne ricalca la storia, con qualche leggera modifica.
Dopo anni di ricerca, sono riuscito a recuperare il romanzo in versione ebook e ne è valsa proprio la pena. Premetto che questo è il tipo di fantascienza che piace a me, senza soluzioni che sfiorano il fantasy o il magico e con un’indagine sulla società del futuro che può essere, senza troppe metafore, lo specchio e il risultato della società di oggi. L’ambientazione è New York all’alba dell’anno 2000, gli abitanti sono 40 milioni e i problemi ambientali, lì come nel resto del pianeta, sono ormai irreversibili. C’è scarsità di acqua, di cibo e quasi ogni specie animale è estinta. La differenza tra le classi sociali è abissale e, pur essendo sull’orlo del collasso, a fronte di persone che fanno fatica a trovare qualcosa da mangiare e un posto dove dormire, ne esistono altre che vivono ancora nella tranquillità e nella assoluta agiatezza, potendosi permettere qualsiasi cibo, appartamenti sicuri con acqua corrente e aria condizionata.
Il poliziotto Andy Rusch, il cui lavoro si risolve spesso nel dover sedare delle sommosse causate dai continui razionamenti di cibo e acqua, si trova a indagare sull’omicidio di un personaggio poco pulito, ma ricco, ammanicato tra politica e malaffare. “Big Mike” è stato ucciso violentemente nel suo lussuoso appartamento, che divideva con Shirl, una splendida ragazza (non viene detto esplicitamente, ma si tratta di una escort e addirittura nel film questo tipo di “optional” farà da corredo all’appartamento stesso), che finirà per legarsi con Andy fino a trasferirsi da lui, quando non le sarà più possibile occupare la casa dell’amante morto. Andy divide la casa con il vecchio Sol, ex militare ultra settantenne, che fa un po’ da coscienza e memoria storica dei tempi che furono. La vita per il poliziotto però si fa via, via più difficile: turni massacranti, continue rivolte da cui esce sempre più ammaccato e richieste “ondivaghe” riguardo alla risoluzione del caso di omicidio (a seconda degli interessi di chi muove i fili dall’alto). Non svelo il finale. Come non svelo il “segreto di pulcinella” che sta dietro al film, non sia mai che qualcuno debba ancora vederlo, una delle modifiche più sostanziali rispetto al libro.
Protagonista del film è Charlton Heston che negli anni 70 interpretava film di qualsiasi genere e non disdegnava la sci-fi. Infatti, oltre a due film della saga de Il Pianeta delle scimmie, era stato protagonista nel 1971 di “Occhi bianchi sul pianeta terra” (“Omega Man”), uno degli adattamenti del romanzo “Io sono leggenda” di Richard Matheson. Nella versione cinematografica il poliziotto si chiama Thorn, ma non è questa la sola differenza. Attorno al segreto che non svelerò, gira tutto un complotto di giochi di potere e loschi intrighi. L’assassinio non è più casuale, come nel romanzo: la persona che viene uccisa (oltre al fatto che rispetto al personaggio del libro ha una grande rispettabilità di facciata) è depositaria di un segreto troppo grande e si teme che lo possa rivelare.
Nel film, oltre a qualche soluzione davvero ispirata e geniale, come ad esempio la visione della città in totale caos, l’inquinamento etc., il recupero di energia elettrica tramite una cyclette rudimentale (che mi ha fatto venire alla mente uno dei primi episodi di “Black Mirror”) e anche l’idea del suicidio assistito, presenta purtroppo qualche momento poco felice. Innanzi tutto la poca considerazione che si dà dei mass media e dell’evoluzione dei computer. Non dico che a inizio anni 70 avrebbero potuto prevedere tutto quello che abbiamo oggi, però uno sforzo in più lo potevano fare. Sol è un depositario della memoria, una sorta di “uomo libro” che ricorda un po’ il finale di “Farhenheit 451”, poetica come figura, ma in questo contesto forse non proprio azzeccata. Altra debolezza che ho riscontrato è la facilità con cui verso la fine Heston-Thorn scopre l’arcano, nessuno sa la verità, ma per scoprirla… basta pedinare un camion. Ok, poi è sconvolgente quello che salta fuori, sempre che non lo si sappia già, e anche se lo si sa, lascia l’amaro in bocca e ci costringe a riflettere. Anche oggi.
Dove stiamo andando?
Da Wikipedia scopro alcune informazioni di cui non ero al corrente, per cui le copio qui sotto. Esplicito la fonte, ma non metto il link, sempre per il fatto che lì c’è uno spoiler gigante sul finale.
Da Wikipedia quindi:
“La sceneggiatura venne scritta in base al romanzo di Harry Harrison (1966), ambientato nell’anno 1999 con le tematiche della sovrappopolazione mondiale e dell’esaurimento delle scorte alimentari in primo piano. Ad Harrison venne proibita per contratto ogni intrusione di carattere creativo nella stesura del copione, avendo la MGM acquistato da lui i diritti. Egli discusse dell’adattamento del suo romanzo nel libro Omni’s Screen Flights/Screen Fantasies (1984), dichiarandosi soddisfatto a metà del lavoro svolto dagli sceneggiatori di Hollywood.
…
Questo fu il 101º e ultimo film di Edward G. Robinson; l’attore morì di cancro 12 giorni dopo la fine delle riprese, il 26 gennaio 1973. Heston affermò che nessuno era a conoscenza della malattia di Robinson durante la lavorazione della pellicola, ma che egli venne a sapere che l’anziano attore fu portato via a braccia dopo aver girato la scena della morte del personaggio di Sol Roth, in quanto troppo debole per alzarsi da solo.”
Detto questo, posto anche l’annuncio di Marina Morgan dato in tv nel 1984, diventato virale in rete, dopo questi ultimi anni difficili.
A conclusione, consigliando lettura e visione, sempre in un’ottica che tenga conto della prospettiva e del periodo in cui furono prodotti romanzo e film, posso affermare con quasi assoluta certezza che in Italia la maglietta della Soylent Corporation ce l’avremo in tre al massimo.
Il film animato “The House” è una di quelle esperienze visive che sarebbe bene non perdersi. Piacevolmente non alla moda, raccontala vita all’interno di una casa, in tre scampoli di tempo differenti, a metà strada tra horror e commedia grottesca.
Diventa sempre più complicato, per non dire impossibile, nel mare magnum dell’offerta delle piattaforme televisive, trovare qualcosa di nuovo e originale, che non assomigli a prodotti già visti. Oppure non venire travolti da produzioni che alzano oltremodo l’asticella dell’assurdo e dell’estremo per attirare fette di un pubblico sempre alla ricerca di emozioni forti. Da qualche tempo ho imparato a esercitare una sorta di “diritto di recesso” se una serie o un film , magari fin da subito, si rivelano non all’altezza delle aspettative. In parole povere, non voglio più sentirmi obbligato (e imprigionato) a dover finire una serie o un film che non mi convince. Il tempo è quello che è e non vale la pena sprecarlo, giusto per poter dire che si è visto tutto (turandosi il naso e resistendo ai conati). Ecco perché alcune produzioni non le calcolo nemmeno.
The House ha invece rappresentato una piacevole sorpresa. Non ero molto convinto dal trailer (pensavo si trattasse di un film per bambini), ma ho voluto provare lo stesso a vederlo e sono stato premiato. L’animazione in stop-motion, o almeno mi sembra così, ma immagino che con la digitalizzazione computerizzata oggi si possa fare di tutto, ci mostra personaggi che sembrano dei pupazzi di stoffa, ma che parlano e agiscono come persone adulte. La storia è divisa in tre episodi, ambientati presumibilmente nella stessa casa, ma in epoche diverse e con protagonisti differenti.
Nel primo capitolo (E dentro di me, si tessero menzogne), ambientato nell’800, a una famiglia viene chiesto di abbandonare la propria casa a fronte dell’offerta di poter occupare un’abitazione più grande e lussuosa. Un emissario di un fantomatico architetto recapita i messaggi per convincere la famiglia a trasferirsi. I genitori si lasceranno convincere, mentre le due piccole bimbe coltiveranno dei dubbi, fino a trovarsi a indagare sui misteri della nuova casa.
Nel secondo capitolo (È smarrita la verità che non si può vincere), che si svolge ai giorni nostri, un topo antropomorfo deve vendere una casa e presentarla a un gruppo di clienti papabili che vogliono solo il meglio. I problemi non tarderanno a manifestarsi.
Nel terzo episodio (Ascolta bene e cerca la luce del sole), il meno cupo dei tre, ma non per questo meno denso di significati sottintesi, i protagonisti sono dei gatti antropomorfi. L’ambientazione è nel futuro, la terra è quasi del tutto sommersa dalle acque (non viene spiegato il perché, scioglimento dei ghiacci? non ci è dato saperlo). Rosa è la padrona di un condominio che sogna di ristrutturare e riportare a un antico splendore. Ciò però comporterebbe avere nuovi inquilini, anche perché gli attuali non sembrano molto affidabili.
Si potrebbero trovare molti significati nascosti in questa narrazione, a tratti kafkiana, che a suo modo parla dell’edonismo e del consumismo che inevitabilmente ledono le anime umane. Una costante della storia, coniugata con differenti sfumature, è l’idea dell’abbandono, inteso anche come abbandonarsi a un flusso di eventi (o di volontà contrarie alla propria) ineluttabile e invincibile. Un processo inteso a snaturare l’umanità e a imbrigliarla (tranne nel terzo episodio che lascia un filo di speranza) a lacci invisibili, ma indistruttibili.
Il film, diretto da Emma de Swaef, Marc James Roels, Niki Lindroth von Bahr, Paloma Baeza e scritto da Enda Walsh, è stato prodotto per Netflix dallo studio Nexus di Londra ed è presente sulla piattaforma da gennaio.